Nell’anno dei trenta (1) e (2)

Il 2012 è l’anno dei miei trenta e raccoglierò sotto il cappello esplicitato nel titolo e numerandole progressivamente tutte le svolte che capiteranno.
È anche un modo per portarmi fortuna, via.

Oggi, in un colpo, le prime due.

Il mio primo blog, quello su splinder, è morto. Il primo Chapter One, nato il 16 maggio 2004, oggi è morto in una strage collettiva che piangiamo in molti. Splinder ha chiuso e con esso anche il mio primo pezzo di vita su internet. Mi avevano avvisato per tempo, ho salvato tutto quello che ho scritto, non ho cancellato nulla, ma non ho spostato nulla. Quindi splinder è morto e non si troverà più nulla in giro di quello che c’era del mio Chapter One.

Il primo post della mia vita è stato sul perché avessi scelto Chapter One come nome e quel blog è stato per anni il trasferimento dei miei appunti quasi quotidiani, non servivano a nessuno, solo che non compravo più diari, avevo smesso da un po’ di comprare taccuini, non scrivevo più come al liceo, cioè tutti i giorni, i libri erano quelli dell’Università e Francesco mi aveva detto che secondo lui era proprio adatto a me quel posto sul web dove scrivi le cose che si chiama blog. Ecco: io la prima volta che ho sentito la parola blog nella mia vita ero a Bologna, era maggio, l’ho sentita dalla bocca di Francesco in accento siciliano e usavo ancora winamp, avevo un Acer di nome Gustavo e splinder faceva ancora punto it.
Avevo iniziato a sviluppare quel rapporto simbiotico con il supporto tecnologico-computer che dura ancora e anzi si è sviluppato – ormai non è simbiosi, siamo proprio la stessa cosa – e ricordo esattamente quel pomeriggio in cui ho registrato un nome, una mail, una password, ho scelto un template che ho poi modificato da sola, con cura, con tanti <table> e ho scelto il mio primo header rosso, ho messo su il primo post.
È durato tutto tantissimo, mi sembra di ricordare che sono stata tutto il pomeriggio ricurva sul computer, ho pesato tutte le parole possibili, è durato più o meno tutto come una crema chantilly. Il nome, ti avvisavano, andava scelto con cura perché l’indirizzo non lo potrai cambiare, e io che non capivo nulla di quello che stavo facendo, filosoficamente parlando, mi son detta di dovermi nascondere. È stato il primo gesto nascondermi: il nome e cognome no, non mi andava, così la prima cosa che poteva sostituire il mio nome era di certo un concetto e quello dovevo trovare. Poi magari lo cambio, un giorno, mi sono detta, ne apro un altro quando ho capito bene come funziona: me la sono raccontata, dato che io a quei tempi conservavo anche gli scontrini.
Quello di Chapter One è il concetto meglio esplicitante di tutto quello che era per me scrivere in quel momento e, non essendomi posta il problema di dove lo stessi facendo – carta, web, diario, lucchetti, penne, tasti non mi importava già più nulla -, ho pensato a tutti i Capitolo Uno che avevo nella cartella MIO sul computer in quel momento lì. Ho pensato al cinema e ho pensato a Manhattan, che si apre con le parole “Chapter” e “One” e ho pensato che proprio da lì dovessi iniziare. Mi pareva perfetto.
E non ho ancora finito, di fatto, né di scrivere Capitoli Uno che non mi serviranno mai, né di scrivere di cinema.
Chapter One è stato anche su wordpress e poi su tumblr. Poi è arrivato novelz, ma il Chapter One su splinder è quello durato più a lungo ed è quello che si porta qui ancora qualcosa che non ho mai abbandonato.

Ciao Chapter One: sei stato prezioso, nascosto, inutile, delicato e accuratamente solo mio.

***

Da oggi, poi, sono residente a Milano. Proprio da oggi. Da oggi che splinder non c’è più, sì. No, non c’entra nulla: è stato un caso, dovevo farlo da tempo, era un voto elettorale.
Residente zona 2, nessun veicolo a carico, sulla dichiarazione ho dovuto scrivere “impiegata” perché una categoria per i contratti a progetto non esiste. “Scriva libero professionista” “Non posso, non sono iscritta ad Albi professionali, non ho la pratita Iva” “Scriva lavoro dipendente” “…” e quindi l’impiegata sta per “faccio un lavoro d’ufficio otto ore al giorno circa che somiglia a quello di un impiegato”. A un certo punto la seconda impiegata – non so perché fossero in due – mi continuava a ripetere “Ma si faccia assumere, no?”.

Aspetto il messo comunale, che, non so perché, me lo immagino vestito da banditore di corte, con un enorme megafono a tracolla e una sacca piena di scartoffie che escono fuori, lo immagino goffo e frettoloso, un postino senza bicicletta che urlerà dalla finestra “Ei, di casa, c’è nessuno?” e lascerà una missiva su una carta giallognola, spessa e rivida su cui scriverà un numero per richiamarlo con un pennino magicamente imbevuto di inchiostro; non troverà nessuno il messo quando arriverà e io non vedrò mai se i messi sono banditori e se portano il cappello oppure no.