Dell’importanza di non ricordare

Il metodo progressivo, certo, serve a questo: formare l’abitudine al distacco. Ho sentito mamme, anche non al primo figlio, dire che a questo stack che si sente la prima volta che si sta separati per ore non ci si abitua, che è per modo di dire «abitudine».

Spererei, invece, che l’abitudine nasca e cresca forte. Se non altro per autodifesa, serve un’autodifesa a qualsiasi amore, per entrambi. Per il momento, questo stack che sento da stamattina ha le sembianze del tempo, reale, fisico, puntuale, ormai passato. La grammatica genitoriale si arricchisce di un nuovo tempo verbale: il passato prossimo.
«Il passato prossimo è quel passato che è appena avvenuto, ma non appartiene già più al presente e diventerà passato remoto», senza scampo. È finito: nessuno potrà mai ripensarci e decidere di non farlo più accadere. Questo tempo non ha nulla a che vedere con il ciclo delle stagioni o il rincorrersi dei compleanni o con le foto che spuntano ogni tanto nei cambi armadio. Ha a che fare, piuttosto, con la possibilità di tornare a fare ciò che si faceva prima. Il passato prossimo genitoriale ha una qualità che nessun altro passato prossimo ha: può tornare un po’ più indietro. Sì. Emozionante. Riappropriazione, la chiamano.

Ma prima quando?, mi domando. Prima nel senso di prima della gravidanza? Prima di diventare genitore? Prima di cosa, esattamente?
Hanno dimenticato di dirmi che non avrei ricordato come si stava prima, che avrei comunque dovuto inventarmelo, magari con l’aiuto di qualche inconscia reminiscenza.
Ma per una volta non ricordare mi pare un regalo prezioso, il primo così materiale che mi arriva da Paolo.