Novantasei

Oggi è il compleanno della nonna da cui ho preso il nome. Abbiamo anche la stessa bocca.

Ne fa 96, è nata nel 1916, quando c’era ancora il bianco e nero.
L’ho chiamata al telefono, sente poco, quindi ero in strada sotto l’ufficio ad urlare.
Di solito, quando la chiamo, da diversi anni, si lamenta molto: acciacchi, dolori, vede poco, sente male, non può mangiare tutto il fritto che vorrebbe, abita da sola perché non può farne a meno e quindi mi elenca tutte queste cose, poi mi dice che a Casacalenda piove o c’è bel tempo o, se è inverno, che le dispiace perché non può affacciarsi al balcone per vedere la gente che passa. Dopo, verso la fine, mi chiede quando torno a casa, si lamenta anche perché non ci sono mai.
Ma.
Solo quando la chiamo per il suo compleanno, alla fine, dopo che le ho fatto gli auguri mi dice: «Sono…» e ci mette il numero preciso, lo fa durare tutti i momenti belli e brutti, tutti gli acciacchi e le carezze e poi aggiunge:  «…mica uno!» e un po’ ride, un po’ no, difficile dirlo con certezza, a me pare sempre che rida per quell’attimo in cui ne ha mica solo uno e riavvolge il nastro. Così sembra sempre felice al telefono di compiere gli anni, perché tutti ci ricordiamo di prendere il telefono e urlare in strada tanti auguri.
E anche in questo, in questo vezzo egocentrico che dura 24 ore, io e lei siamo uguali.