Chi conta in progressione, partendo da un punto per arrivare a uno indefinito, è profondamente ottimista e conta alla rovescia solo quando è eccitato e non vede l’ora di poter cominciare a contare in progressione, quando i giorni che lo separano da quello decisivo sono di intralcio, friccica senza sosta, lo vedi andare e venire con gli occhi spiritati. È felice di arrivare al traguardo.
Chi si ricorda di contare quando può farlo solo alla rovescia, invece, è pessimista e affascinato dal meccanismo della rovescia: essendo chiusi, per definizione, i conti alla rovescia sono più concentrati e risultano meno dispersivi; sono anche meno faticosi, non c’è il rischio di annoiarsi. Sono fatti per quelli come me, che tendono alla digressione incontrollata, alle associazioni di pensieri, che non sanno scrivere i racconti e non sono abbastanza bravi ad aspettare.
Nei conti alla rovescia si dice che manca un tot di giorni e/o un tot di ore: la mancanza è condizione necessaria affinché il conto alla rovescia si possa manifestare; è la mancanza che genera fibrillazione incontrollata. Durante il conto alla rovescia c’è solo quello che manca a fare compagnia, a rendere l’attesa speciale e se sei bravo abbastanza puoi sostituire la mancanza con quello che vuoi.
Però, può esserci un momento in cui chi, come me, conta solo alla rovescia inizia a contare in progressione. È quando succedono cose epocali, svolte inattese. Quando si cede a un conto progressivo che non ammette una fine.
È una delle cose più pericolose che chi conta solo alla rovescia può pensare di fare.
Ecco: il 14 settembre di quest’anno mi sposo. È un sabato mattina.
Mancano ventuno giorni e diverse ore.