Nell’anno dei trenta (13)

Stamattina mi son svegliata con una sveglia alle 6: non succedeva dal 2006 di esercitare questa volontà sul mio organismo.
È che alle 7.15 è arrivato il pianoforte a casa.

Simone era molto sveglio, io no; faceva le chiacchiere con i traslocatori, io mi sono strizzata gli occhi, ho inforcato gli occhiali e mi sono appoggiata al corrimano del pianerottolo, di fronte alla nostra porta, affacciata alla tromba delle scale, per vedere tutto il percorso che avrebbero fatto, per monitorarli dall’alto, come fa il gatto quando deve capirci di più. Simone, invece, era lì in basso, fiducioso, a vedere questi due tizi portare in casa il suo pianoforte, quello che ha tantissimi anni, fatto di meccanica, legno e martelletti, quello che se ti ci avvicini devi chiedere il permesso.
Era lì serafico lui, io no.
I due traslocatori erano persone normalissime – siano benedette le persone normalissime – non avevano accenti, né modi particolari di camminare, né tic particolarmente visibili, erano dei John Doe delle imprese di trasloco; eppure avevano un furgone attrezzato solo per trasportare pianoforti, avevano una mini amaca e un carrellino quadrato con le ruote che sarebbero stati d’impiccio per qualsiasi altra cosa che non fosse stata trasportare un pianoforte. Io non ho niente contro le persone normalissime, ma a vederli lì non avevo niente che mi facesse avere fiducia a priori. Un segno, una tuta con sul taschino disegnato un pianoforte o la chiave di violino, un pentagramma come portachiavi, che ne so: qualsiasi cosa. Niente. Li ho guardati molto, mentre preparavano l’imbracatura.

Sei agitato?, ho mimato io da sopra le scale a Simone.
Non aveva capito.
Ci ho riprovato.
Niente.
Allora gli ho mandato un messaggio.
Di che?, mi risponde.
Che ti portano su il pianoforte.
No. Perché dovrei?
E che ne so, magari su per le scale sbatte.
Ma va’!

Hanno sistemato nell’androne del palazzo la mini amaca, poi hanno fatto scivolare il pianoforte dal furgone parcheggiato fuori, delicatamente – pianoforte che si era già fatto trenta chilometri di tangenziale fermo e immobile, incastrato in una struttura apposta – e lo hanno messo sulla mini amaca, delicatamente.
Uno di loro era cicciotto e più basso, l’altro magro e alto, non so se li abbiano scelti così apposta, per far venire in mente a me Stanlio e Ollio, le comiche, le buce di banana, le botte in testa, e la sequela possibile di disastri con la scena finale in cui il pianoforte è un cumulo di macerie, non lo so: fatto sta che ho corrucciato lo sguardo, mi sono svegliata di colpo, ho guardato Simone che era sempre più serafico tendente al contento, e mi sono detta che Ecco, devo darci un occhio io, che se non ce lo do io l’occhio, quello lì è perso a sorridere. Ma vedi te.
Per le scale si davano il tempo: Un, due, hop, diceva uno, quello che lo spingeva in su, quello più alto e anche io mimavo la spinta, senza farmi vedere. Piano, giù, diceva poi quello che lo appoggiava, dall’altra parte, a pezzo di scala finito.

Siamo al primo piano, ho detto.
Sì lo sappiamo, hanno detto in coro.
Meno male. Pensate fossimo stati al settimo!
Saremmo arrivati lo stesso, mi ha ribattuto quello più alto.
Ecco, ho pensato non troppo convinta.
Di nuovo: Un, due, hop, diceva il primo. Piano, giù, diceva poi l’altro, dall’altra parte, a pezzo di pianerottolo finito, tutto accucciato, con le mani che stavano proprio sotto al legno, a proteggerlo, delicatamente. Erano quasi arrivati, Simone li aveva sorpassati, allora io ho abbassato la voce, delicatamente.

Ma davvero non sei agitato?
No, Ele. L’ho visto fare altre volte.
E che c’entra.
Fanno il loro mestiere, non succede niente, non ti preoccupare.
Posso entrare?, ha chiesto quello più alto.
Sì, sì.
Vorrei vedere dove va sistemato.

Entra, io l’ho seguito, affrettando il passo: lui era il prestigiatore che stava per finire il numero della donna tagliata a metà e io quella del pubblico che fissava il punto in cui, insindacabilmente, si nascondeva il segreto del suo numero più pericoloso, lo fissavo per smascherarlo, per capirci di più; Simone ha sbadigliato, ho percepito la sua assenza di tensione e per me era un errore di valutazione inconcepibile, porca miseria, allora l’ho guardato male. Ha percorso tutto il corridoio, gli abbiamo indicato il posto, lui ha valutato, guardato i battiscopa, io ho continuato a fissarlo, Dov’è il segreto? Dov’è?, ha notato le prese, guardato la tv e definito il perimetro della stanza con lo sguardo.

Va bene.
Va bene, ho ripetuto.
Andrà poi bene, mi son detta tra me e me, Vedremo se andrà bene, santinumi.
Sudavo. Simone no.

Il carrello con le rotelle serviva per spingerlo lungo il nostro corridoio, fino al punto preciso, più in fondo della casa, dove è stato appoggiato, di nuovo delicatamente.
No, un po’ più in là.
Lo hanno messo un po’ più in là.
Ecco fatto, ha decretato quello più cicciotto, delicatamente, sorprendendomi.
Ecco fatto, ho ripetuto io, piano, sentendomi goffa d’un tratto.

Sono rimasta lì, seduta di fronte a lui, ho avvisato i miei che era arrivato il pianoforte, mentre i due traslocatori delicatissimi se ne sono andati e Simone faceva il caffè.
Non vieni a vederlo?
Dopo.
Come dopo?
Dopo.
Perché?
Fallo riposare.
Dici che lo disturbo se sto qua?
Ha riso, deve anche aver scosso la testa, lo so, non l’ho visto ma l’ho immaginato, mentre io ero ancora lì, il pianoforte pure, non ha fatto tonfi, né ha detto Ahia. Me ne sono andata, delicatamente, e l’ho immaginato che avrebbe iniziato a girarsi e rigirarsi, per trovare una posizione.
Sta lì anche adesso, senza nessuno che conosce in una casa nuova, ad ambientarsi, a settarsi sull’umidità dell’aria, a rendersi conto di dov’è finito. A giudicare l’ordine e il disordine, l’armadio e i cuscini.
A fare amicizia con osvaldo.
Chissà se gli piacciono le tende.