Ho visto da vicinissimo David Grossman, ieri sera, gli ho anche stretto la mano.
Ha una mano liscia: una di quelle che si cura con le creme al latte, liscia sia sul palmo che sul dorso, piena, viva, da nonno che non lavora più ma sta comunque bene, fa le sue cose, esce, prende aria. E poi lui abbraccia il palmo, da sopra a sotto, fa proprio il gesto di quello che infila la sua mano nella tua, mentre ti guarda dritto negli occhi.
Ero al Teatro Franco Parenti di Milano, lui era seduto sul palco, sulla sinistra, accanto al suo traduttore, Paolo, e rispondeva a domande varie, soprattutto sui libri che ha scritto e i personaggi cui ha dato vita. Ha detto, tra le altre cose, tre cose che mi sono segnata – più o meno, perché le ho segnate in inglese e quindi non sono sicura affatto della trascrizione, ma l’importante sono i concetti*:
1. This book (Che tu sia per me il coltello, cioè) is about be loved by someone else not for what we are but in spite of what we are.
2. When I have an idea, that idea always seems to me a bad idea, but I start walking.
If it’s spring or summer, I walk out. If it’s winter, I walk in one room, I walk around and around, my wife says “You’re burning my carpet”, and in that way, the idea becomes a good one.
I start walking faster, and if the idea is still in my head for two or three days, it means that the idea is really good. So, I started asking some questions to myself about that idea. I’d like to transform that idea in a new bad one. But I can’t. And If I can’t, that is my sign: that is my new story.
3. It’s curiosity. I write because I’m curious about people, how they deeply are, what they deeply think. I know myself, even too much: I’m curious about people.
*gli errori sono tutti miei, quindi.