Ho tagliato i capelli, li ho fatti corti. Ritagliato, a dire il vero.
La prima volta che ho tagliato una treccia lunghissima, per far posto a un caschetto portato con cerchietti di tutti i colori e con mille pupazzetti sopra, in realtà ha deciso mia madre, ero alle elementari e avrei avuto la recita di fine anno a breve.
Avrei cantato un coro non meglio specificato, con il grembiule bianco, un colletto ricamatissimo, un cerchietto fucsia e il moccio al naso: la mia nuca scoperta la prima volta non ha resistito al freddo.
La seconda volta li ho tagliati a luglio 1996. Me lo ricordo perché l’ho fatto quando la bilancia pesapersona di casa segnò un meno molti chili che aspettavo da qualche settimana. Ho assaporato il femminile e capriccioso gesto di tagliare i capelli per tagliare via qualcosa che non andava né giù né su. Ma poi, dato che continuava lo stesso a stare lì, tra la frangia e la scalatura che arrivava fino alle spalle, non era andato via un bel niente, tornai dal parrucchiere a solo una settimana di distanza.
Ci tornai arrabbiata, perché mi avevano preso in giro tutte, tutte quelle facce plastiche, giovani e fiere che stavano ferme e belle sui lookbook, portatrici di promesse di cambiamento, svolte e tagli volubili e vacanti.
Taglia, ho detto. A pagina quattro c’era la promessa mancata numero uno, a pagina dieci la numero due. Me le ricordavo perfettamente.
Taglia, ho sottolineato.
Quanto?
Tutto, ho ribattuto. La vita a quattordici anni è tutta chiusa come un riccio, solo che da dentro non si vede: a me sembrava così facile e dovuto: tagli, via. Cambi, e via. Ti spremi come un tubetto di maionese e dentro speri non ci rimanga più niente. Fuori le infezioni e dentro le radici dell’infezione.
Tutto?, mi fece lui.
Tutto, dissi assertiva e meticolosa, scandendo per bene le doppie, senza strafare come facciamo di solito noi giù. Nelle due t stavano strette a ammassate le promesse non mantenute che volevo rivendicare. Erano mie, e lo sa quello specchio di quel parrucchiere quanto fossero mie.
Sei sicura?
Gli risposero i miei occhi, perennemente arrabbiati, da allora in poi.
Ho guardato esattamente le forbici dare dei tagli grossolani, spezzare ciocche intere con un solo colpo, poi piano piano le forbici diventavano sempre più piccole e i gesti man mano più minuziosi. (I miei capelli sono lisci e sottili e tanti, si fa fatica a capire quando un parrucchiere finisce il suo lavoro.) A un ceerto punto erano davvero corti, sì. Il mio viso era distinguibile in ogni particolare, le espressioni seguivano i pensieri senza mollarli nemmeno per un attimo e era tutto visibile, palese, come piaceva a me. Finalmente.
Va bene?
Mi girai un po’, specchiandomi, e scoprii un orecchio, tirai in su quel che c’era sulla nuca e iniziai a sorridere, come se avessi capito, una buona volta, da dove cominciare.
No, taglia tutto, dissi di nuovo allegra.
Era rimasto solo mezzo centimetro di capelli.
Uscii dal negozio pensando “Am I a human it’s very good maybe I am it’s very nice the feelings in me and the fire keeps me warm” e mi sentivo bellissima: una esplosione di gesti e micromovimenti, di dettagli incastonati tra la pelle, su cui chiunque si sarebbe soffermato, era sicuro, mi specchiavo nelle vetrine lucide e vedevo quello che volevo, che era lì, senza una sbavatura e pronto per essere portato in trionfo per sempre.
Una cosa che facevo spesso, a quindici anni, era dire “per sempre” come fosse sempre questione di un taglio di capelli. E con un taglio di capelli ho pensato, a sedici anni, di poter ritardare le cose, farle accadere quando volevo io, con quel senso di onnipotenza facile che non avevo ancora capito e quindi rifiutato. Era stata la terza volta che tagliavo i capelli, qualche mese dopo la seconda, e ci andai con mia zia e mia madre, non ero arrabbiata, non ero nemmeno felice. Era solo che mia zia doveva tagliarsi i capelli, per scongiurare o almeno ritardare le parrucche e la cosa che sapeva fare lei, quasi sempre, era assoggettare la mia vanità, rivelandomela subdolamente. Era riuscita a non farmi mangiare le unghie, in cambio di soldi; era riuscita a farmi truccare poco e bene, in cambio di trucchi costosissimi; era riuscita a farmi entrare dal parrucchiere con lei e mia madre, senza pensare troppo, senza rimettere in quei gesti tutto il mio destino, ma facendola diventare una cosa frivola.
Quel pomeriggio ho pensato che sarei diventata una donna niente affatto complicata, un giorno, quando sarebbe toccato a me, che avrei messo milioni di tacchi e di bei vestiti e ho pensato che mia madre e mia zia avessero un modo di essere che sarei stata capace di replicare mai. E mi sentii triste per questo, in difetto, ma sapevo di poter imparare. Prima o poi ce l’avrei fatta e poi sarebbe stato per sempre.
Quel pomeriggio sono uscita coi capelli corti, ma non quasi rasati come l’ultima volta, con un viso quieto a rispettoso. Avevamo la testa uguale, io e mia zia, solo che lei aveva i capelli più scuri e l’espressione speranzosa. Siamo state uguali, quel pomeriggio, per un po’, e “per sempre” sarebbe stata la promessa che quel taglio avrebbe tradito. Ma l’avrei scoperto solo qualche mese dopo.
Da allora li ho ritagliati una volta sola i miei capelli, una sera di novembre a Bologna, al secondo anno di Università. E non mi ricordo bene perché, ma era un periodo che pensavo da sola troppo spesso. Perché non cambi taglio di capelli? Perché non cambia niente, tanto.
Ieri pomeriggio una mia amica mi ha detto – tutti me lo dicono spesso ultimamente – quanto io stia bene coi capelli corti, quanto questa cornice sia la mia, quanto mi cada perfetta, quanto abbia trovato il mio.
Non so: io sono solo andata dal parrucchiere con una foto di Winona Ryder sull’ipad e ho indicato lo schermo: ho imparato a non fidarmi più dei lookbook. Ma la differenza con tutte le altre volte è che ci sono andata senza troppe pretese, come una cosa frivola, come un capriccio, come quella volta lì con mia zia, senza dire nessun “per sempre” ma solo “ricresceranno” come ci fosse il tempo, il modo, lo spazio per ricrescere, crescere, fare tutto, da quel momento in avanti.