Lo stomaco

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Questa storia è apparsa su Abbiamo le prove a settembre 2014.


Sono brava a ricordare i fatti, i volti, le date, i particolari.
Non sbaglio mai.
Quando dico “brava” intendo che so com’ero vestita, cosa ho pensato, ma soprattutto come mi sono sentita, posso dare un significato tridimensionale all’espressione “ricordare esattamente”.

Un martedì pomeriggio di settembre, è il 2006, ho ventiquattro anni. Sto per entrare al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna per la seconda volta.

La prima è stata a marzo, quando mi sono fermata dopo un corridoio, in un ingresso piccolo e rettangolare, in cui c’erano appoggiati al muro due tavoli stretti, con diversi moduli da compilare, tutti uguali, sparpagliati alla rinfusa. Su uno di questi, con la penna bic nera ho scritto i miei recapiti, le informazioni di studente e il motivo per cui volevo usufruire del servizio, poi ho piegato in due il foglio, stando attenta che non ci fosse nessuno alle mie spalle, e l’ho consegnato alla signora bionda che odorava di vaniglia al di là della scrivania su un lato dell’ingresso, quello più in luce. Ho allungato il braccio, lei il suo, mi ha sfilato il modulo dalle mani frettolosamente e lo ha messo fra gli altri.

Sono uscita sollevata, ho sceso veloce le scale: fuori il sole c’era ancora, ma meno convinto, io forse avevo esagerato ma in fondo stavo bene, non avevo bisogno di niente. Vivevo da sola, non a mie spese, facevo l’università, non a mie spese, vivevo nel regno del potenzialmente possibile, e ogni volta che qualcuno mi domandava come stessi, dicevo: – Bene, benissimo. Da Dio.

Quel martedì pomeriggio di settembre, dicevo, lascio L’immagine-movimento di Gilles Deleuze aperto sulla scrivania della stanza nella casa in condivisione, mi alzo, mi vesto, esco. Lungo il percorso, che faccio a piedi per tentare di rilassarmi, incontro un Jack Russell con un occhio nero e attraverso la strada – perché ho paura dei cani – per poi aspettare sul marciapiede che lui finisca i suoi bisogni sullo spigolo del palazzo adiacente al Dipartimento e il suo padrone, sbadigliando, si rincammini.

Faccio meno di due chilometri, entro in un portone aperto, che mima accoglienza, vado al secondo piano e chiedo della dottoressa M., proprio come mi era stato detto al telefono due settimane prima, quando avevo ricevuto un orario preciso al minuto, 15.27, e il piano dello stabile, il primo, e avevo appuntato tutto.
– Viene qui e ci dice l’orario.
– Deve essere così che funziona nelle sette – , pensai in quel momento e mi dico adesso mentre faccio il primo scalino.
Sono a mio agio nell’inviolabilità e mi dimentico del probabile: Bologna è piccola come pochi cerchi concentrici e sulla porta, leggermente accostata, apro la cerniera della giacca, faccio entrare aria per medicare il respiro affannoso. Sguscio all’interno. Questo ingresso è quadrato, con poche sedie tutte uguali, disposte casualmente, il viavai deve essere abbondante. Adesso c’è una ragazza che sta uscendo, una che sta andando in un’altra stanza, un odore di lavanda e un raggio di luce spesso che si fa largo tra i faldoni sullo scaffale in fondo. Nessuno si accorge di me: per essere invisibili ci vuole una grande capacità di svicolare e io sono brava a farlo.
Non sbaglio mai.
Dalla scrivania di fronte a me si solleva una testa piena di riccioli neri che conosco: li ho visti ogni mattina per quattro ore, per qualche mese. Mi saluta con la mano, sorride, ci ripensa.

Tra il momento in cui ho compilato il modulo a marzo al piano di sopra di quello stesso edificio e il giorno della telefonata di quindici giorni fa sono passate settimane, in cui rispondevo: – Bene, benissimo. Da Dio – a chiunque lo chiedesse, e avevo fatto in tempo a dimenticare e ricordare almeno cinque volte il modulo compilato, ma quando vedo la testa di ricci salutarmi mi sembra di non aver pensato ad altro, di aver analizzato i pro e i contro, tutti i giudizi possibili e gli imbarazzi da affrontare tranne quello che si sta verificando.
Non scappo solo perché avrei rivisto la testa di ricci almeno altre due volte fuori da qui e sarebbe stato ancora più imbarazzante: avrei creato l’occasione per farla avvicinare, farmi dire che non c’è niente di cui vergognarsi, che lei lo sa.

Deglutisco e mi impianto la migliore faccia di ghisa e proseguo. Ricordo esattamente il suo sorriso, caldo e vivo, fastidioso, e la sensazione dello stomaco che si arrotola, fa un nodo, rimpicciolisce, si ribalta e infine dà alla bocca un sapore nauseabondo.
Non adesso, non così, penso. Me lo tocco, per fermarlo: non è il momento, quello.
Mi saluta di nuovo, ma senza sorridere per sottolineare i ruoli, io perdo il controllo, mi concentro sullo stomaco invece che sulla testa e domando dove è il bagno. Lo indica con la mano, ci entro correndo. Nell’antibagno apro il rubinetto dell’acqua al massimo: è così che lo stomaco e io diventiamo due animali che si fanno la lotta. Io chiudo piano dietro di me la porta bianca con l’immagine della signora in gonnella e vomito aria marcia, lui continua a macinare nodi su nodi, si scioglie e si riforma, non si ferma, non mi ascolta, si scompone per rassegnazione e si assembla per sopravvivenza, sorprendendomi per come riesca a trovare ogni volta una fisionomia differente ma nel profondo sempre uguale, rendendo il processo più oneroso e faticoso, ma soprattutto doloroso. Vince e torna a darmi ascolto solo se gli consegno la resa completa e mi vede con la faccia sul water, la mia migliore abitudine, mentre faccio una cosa difficilissima ma che dal mio corpo esce perfetta, con una dittatura totale e invidiabile su ogni organo e ogni muscolo della parte superiore.

La testa di ricci mi interrompe bussando: è passato un tempo socialmente sufficiente affinché lei si preoccupi senza risultare invadente.

– Tutto a posto?
– Sì.

Conosce il mio nome, ma non mi chiama: ciò mi illude ancora un poco sulla mia identità inviolata e quel pensiero mi distende. Il soffitto del bagno è bianco. Seduta accanto alla tazza, a terra, poggio il gomito sul bordo della ceramica, mi tolgo la giacca perché sono un po’ sudata, il mio solito controllo del corpo sta svanendo, come spesso negli ultimi mesi.

Paonazza, sudata, mi fermo i capelli in una coda poco stretta, sento un formicolio al polpaccio destro.

Ricordo la volta davanti allo specchio del camerino di un negozio di costumi da bagno, su una strada commerciale diretta al lungomare, quando avevo provato un bikini da femmina e non ero pronta. Tutto diceva di me il contrario, ma io ero in ritardo: vidi riflessa l’immagine che dovevo recuperare, per avanzare, mordere e andare ancora avanti. Ero clamorosamente in ritardo. Svicolai anche allora, misi il costume sul bancone, mentre mia madre e la commessa stavano parlando del giallo canarino che è un colore difficile e la tizia accanto a me voleva un blu più blu e meno azzurro. Feci una smorfia, dissi che ne volevo un altro, intero, nero, che sfina. Lo indicai. E mia madre mi consigliò di ripensarci, perché mi faceva bene un po’ di sole in più.

– Tutto a posto?
– Sì.

Pretesi un gelato al cioccolato sul cono da cinquemila lire che mangiai di fretta, prima la stracciatella poi la nocciola infine il cioccolato. Ricordo il volto di un bambino catalizzato dal gelato, il caldo e il sole che picchiava ovunque e la mia abilità a non farne cadere nemmeno una goccia. In spiaggia mia madre ha parlato con una vicina di ombrellone, io non ho fatto il bagno, ho solo messo i piedi nell’acqua e li ho nascosti nella sabbia, e sono rimasta in quella posizione per ore, con il costume nero intero che sfina, appiccicato sullo stomaco dalla mia mano che spingeva, e la maglietta bianca sopra. Provavo a far passare il tempo, a tentare di agguantarlo per recuperare tutto in una volta quello perso e che era talmente visibile ai miei occhi da darmi la nausea.

Stare seduta accanto al water senza che lo stomaco mi ubbidisca è frustrante, mi fa perdere tempo e io voglio solo riacquistare il controllo.

Voglio togliere i piedi dalla sabbia.
Mi alzo, ho una vertigine piccola, sciacquo la bocca ed esco, finalmente arrivo da lei, e la piccola scrivania che ci separa è lo spartiacque tra i due palcoscenici: quello al di qua, dove io e lei siamo conoscenti, quasi amiche, dove non ho mai raccontato nulla di abbastanza importante di me tranne l’inevitabile per creanza, o l’eccezionale per fare bella figura, e quello al di là, dove lei sa cosa ci faccio qui e conosce il codice segreto.
– 15.27 – , dico senza che lei domandi.
– Tra poco – , risponde senza alzare lo sguardo. Aspetto in piedi, imparo quanto sia comoda l’inviolabilità e quanto mi manchi; la ricorderò per sempre, ogni volta che avrò qualcosa da non dichiarare.

La verità, quella che non voglio elencare nemmeno tra me e me, sta dentro molti “mai”, negazioni a pensieri frequenti: ho sempre il controllo, tolgo sempre il disturbo, mi faccio sempre da parte, osservo sempre tutti da lontano, sono sempre in anticipo, dico sempre la cosa socialmente corretta. La verità sta nell’aria nauseabonda e trasparente di poco prima in bagno. Non l’avrei confessata nemmeno alla dottoressa M. e quindi scrivo per imparare a memoria cosa dire di me.
– Mi chiederà che vita faccio – , penso. – Qualcosa le dovrò rispondere. Qualcosa di plausibile.
La verosimiglianza richiama direttamente la correttezza. Comincio, quindi, dai fondamentali: età, peso corporeo, altezza in centimetri, calorie giornaliere ingerite, moroso sì. Avrei iniziato da questo, poi il resto: mi concentro sulle cose da omettere, invece che su quelle da confessare, sui “mai” che fondano l’inviolabilità.

L’omissione rende persone migliori, dopotutto.

Compare sulla soglia una ragazza con i capelli liscissimi, il volto allungato, una maglia a collo alto nera sopra una gonna, lunga e dritta, anch’essa nera, e degli stivaletti con un po’ di tacco. Mi tiro su, sistemandomi sulla sedia, come un cagnolino che aspetta di uscire per i bisogni, la fisso, ma consegna a testa di ricci due fogli, poi torna dentro, mentre l’altra dice:

– 15.27. Vai.

La dottoressa M. chiude la porta, c’è una sceneggiatura da rispettare: testa di ricci chiama, il paziente si alza deglutendo, la dottoressa M. aspetta dentro con la porta chiusa. Deve esserci un meccanismo di inclusione da far scattare, tra dentro e fuori, tra prima e dopo, che si attiva solo se è il paziente a far abbassare la maniglia.
Mi siedo, aspetto istruzioni, scrive, io continuo ad aspettare, sto ancora perdendo tempo: la guardo, lei no. Poi, come se avesse iniziato a percepire la mia presenza nella stanza, legge la mia scheda ad alta voce, e mi fa notare come sia confusa e poco precisa. Ad alta voce, le cose scritte possono apparire di colpo più inesatte.
– Andavo di fretta, pensavo di dover compilare tutto non approfonditamente. Se vuole, lo rifaccio.
– No, non serve. Adesso chiariamo qualche punto.
Sorride e mi guarda: sono come tutte le altre. Lei no per me: ha gli occhi corvini, come la maglia e la gonna, di un colore artificiale, ma non fa paura. Mi imbarazza e abbasso lo sguardo, fingendo di tossire. Prendo le maniche della felpa tra le mani e le arrotolo, chiedo allo stomaco di non fare di testa sua, ci sarà modo e tempo a casa, gli prometto di che avrà il suo spazio presto ma non in quel momento, e lui si zittisce. Accavallo i piedi: l’omissione rende persone migliori, ma ora mi rende vulnerabile.
– Quello che ha scritto qui, questa frasetta. Sul motivo per cui lei è qui.
– Sì.
– Può ripeterlo a voce?
– Certo.
– Prego – dice mentre si stende sulla sedia e incrocia le braccia.

A questo punto il buio. Potrei aver pensato cose di cui forse adesso mi vergognerei o di cui mi mostrerei orgogliosa, potrei essermi commossa di me stessa per la prima volta nella mia vita. A ogni modo il fatto è questo: non lo ricordo. È terrificante. Per una come me è un malocchio. Per quanto mi sforzi, io non ho memoria di quel preciso momento e il perché la mia mente o il mio stomaco o entrambi l’abbiano digerito non mi appartiene.

– Preferisce riscriverlo?
Soggetto, verbo, complemento.
Cancello. Allora dico soltanto:
– Voglio guarire. Quanto tempo ci vuole? Mica tanto. Mi dica cosa devo fare.

La dottoressa M. mi dice che quei comportamenti sono alla stregua di dipendenze, fanno comodo, non hanno uno scopo specifico, servono solo a distrarre da altro, come una bella immagine in cartolina. Va indagato cosa è questo “altro”. Si ferma, beve dell’acqua senza scollare gli occhi dai miei. Il mio stomaco sta in un confine tra vuoto e pieno. Il controllo che esercito è fondamentale per farlo essere la mia macchina perfetta.
– Lei vuole guarire, io devo insegnarle a cedere. Andrà sempre meglio. Imparerà. A un certo punto sarà pronta. Devo dirglielo, però: ci si convive, ma non si guarisce. Mai. Dobbiamo solo capire da cosa. Scriva, coraggio. O me lo dica.

– Mai?
– Mai.

La fatica e l’oppressione della parola “mai” si concentra nei gesti della dottoressa M., nelle parole, nella tensione che vibra sottopelle, nella disillusione per avermi predetto come sarebbe andata a finire.

La forza esercitata sul corpo non ha né nome né similitudini efficienti, è circondata di assonanze che si possono tentare, senza mai ricordare quella esatta.