Un po’ di tempo fa ho rivisto Taxi Driver. Non c’era un motivo preciso. Era un giorno in cui io non avevo molta voglia di niente altro se non di un film e quello è per me di facile reperibilità. Ho messo su il DVD e via. Paolo ha dormito tutto il tempo, mi ha lasciato guardare il film, per piacere, e non si è mosso di un centimetro per tutta la durata.
La celeberrima scena allo specchio la facciamo quasi tutte le mattine ormai. Ci guardiamo allo specchio, lui in braccio, lui ride spesso, e io pure rido e allora lui ride più forte e io rincorro: siamo già al punto in cui vuole avere l’ultima risata. E nel mentre gli guardo cambiare le espressioni, per imitazione, inarca le sopracciglia, apre la bocca, sospende la risata prima di farla uscire sonante e poi di nuovo, e ancora, finché diventa serio. Finché si ricompone.
Di sicuro ci sarà una spiegazione neurologica a tutto questo: l’eccitazione e poi, di colpo, la sua negazione, questo agire e il suo contrario che vedo fargli fare in altri momenti, in altri modi, per altre cose. Ci sarà, lo so. Ma non mi importa granché. Arriva il momento in cui diventa serioso e mi fa la faccia che, evidentemente, quando non lo vedo, ha già imparato a copiarmi. Perché è la mia spiccicata, una sorta di impronta genetica che ci tramandiamo. Un calco di intenzioni che imparerà a dover gestire. Quando gli è venuta? Perché non me ne sono accorta? Come ho potuto lasciarglielo fare?
È dalla prima elementare che gli adulti attorno a me si interrogano sul perché io faccia quella faccia. Succede quando devo dire basta a qualcosa ma dirlo sarebbe scortese. Succede molto spesso quando ridere è troppo. Come ho fatto a insegnargli che ridere a certo punto diventa troppo?
Ci facciamo seri in due e passiamo ad altro. Di solito trascorriamo un po’ di tempo in silenzio, poi uno dei due riprende il discorso. Sto in silenzio perché mi spiace che Paolo smetta di ridere. Siamo già al punto in cui farlo ridere è una soddisfazione infinita, più o meno come far ridere suo padre: deve essere uno dei modi che ho per farmi voler bene. Quindi, adesso, andiamo allo specchio due volte al giorno, almeno finché non dirà «You talkin’ to me?» perfettamente da solo.