Di seguito il testo completo di Festa di fine anno, il secondo episodio di Volée – Un podcast sul tennis, uscito il 19 dicembre 2019.
La classifica di fine anno è uno strumento che fredda la tensione di un anno in un numero; lei da sola pretenderebbe di raccontare ogni conquista, per nascondere invece una storia articolata, fatta di vittorie, sconfitte, passi falsi e talento.
Festa di fine anno racconta di Asleigh Barty, Naomi Osaka, Bianca Andreescu e Belinda Bencic e di una classifica personalissima, la mia, che scompone i loro numeri del 2019 in porzioni, in gesti, in tornei, in colpi di genio, e li ricompone in quattro storie che si intersecano.
PARTE UNO
A 14 anni, nel 2010, Ashleigh Barty vince il torneo juniores di Wimbledon di singolare femminile. Primeggiare tra i piccoli a Wimbledon significa soprattutto conquistare attenzione e importa nella misura in cui, bussando alla porta dei grandi, lo si fa con un certo piglio ed eleganza. È sempre Wimbledon, in fondo.
In queste occasioni conta solo come ci si è vestiti e con chi si arriva: il futuro, per un momento, non interessa a nessuno.
Ash quel giorno sconfigge 7-5 7-6 Irina Chromačëva e lo fa esponendo tutto l’arsenale in suo possesso: cambi di passo, accelerazioni e decelerazioni continue, stilettate da fondo campo e colpi chirurgici a rete. Ci lascia sorpresi e fiduciosi.
Assistiamo a Irina che si innervosisce e Ash che sostanzialmente se ne frega: non ha bisogno di lei per raccontarci chi è. Insiste ad attaccare anche quando sta vincendo. Che meravigliosa sfrontatezza che è l’adolescenza. Ci intriga, ci sembra avventata ma non possiamo smettere di guardarla: Irina scalpita e punta i piedi, noi pensiamo già solo a una cosa: Ash è brava, è intelligente, sa stare sul campo. La vediamo nel futuro, ornata di trofei, cosparsa di onori, ai nostri occhi è già tutto palese.
Ash prova a vincere tra i grandi e a farci contenti subito, già nel 2011 in occasione degli US Open, ma fallisce. L’anno dopo, nel 2012, conquista ben tre wild card per accedere ad altrettanti Slam – Australian Open, Roland Garros, Wimbledon – ma viene fermata ai primi turni dalle colleghe più grandi.
Come lo spieghi a un adolescente scalpitante che non è ancora arrivato il suo momento?
Non gli e lo spieghi, lo capisce da solo. Ash però se ne va, lascia il tennis prima ancora di entrarci e se ne frega, come al solito, di me o di te che ci rimaniamo malissimo.
Per due anni si dedica al cricket: uno sport di squadra che risponde alle Leggi del cricket, un documento del 1788 che ne definisce regole e soprattutto norme morali, in cui il preambolo è una frase piuttosto impegnativa:
«Il cricket deve molto della sua unicità al fatto che dovrebbe essere giocato non soltanto secondo le proprie regole ma anche secondo lo Spirito del Gioco. Qualsiasi azione che sia vista come contraria a questo Spirito causa un danno al gioco stesso. La responsabilità principale di assicurarsi che il gioco sia condotto secondo lo spirito del fairplay è dei capitani.»
La squadra, il non ritrovarsi mai da sola, l’assenza di aspettative e di grossi sacrifici e la vicinanza a casa l’hanno decisamente messa di buon umore, tutt’uno col creato: «Se vinco, è un bonus. Se perdo, il sole sorgerà ancora domani, e va tutto bene.»
Non era il tennis, non ero io, non eravate voi: era decisamente lei.
Nel 2016, durante la stagione sull’erba, Ashleigh torna, senza troppo clamore, giocando la cosa che nel tennis si avvicina maggiormente a uno sport di squadra: il doppio.
La teniamo d’occhio come un bambino a cui si è dato troppo credito, e dalla posizione 623 del 2016 a fine 2019 ce la ritroviamo a capo della festa.
Ashleigh deve aver capito che non bisogna avere fretta, che ogni sconfitta patita negli anni precedenti avrebbe avuto una ricompensa a un certo punto e questo si definisce in 70 minuti sul campo dell’Open di Francia. Prima della finale, la sua avversaria, Marketa Vondrusova non aveva perso neanche un set, statistica invidiabile che indica sempre una cosa: lo stato di forma di una atleta. C’è sempre da temere se ti trovi di fronte qualcuno che non ha lasciato niente, non ha mai peccato di concentrazione, e Ash sa perfettamente come si perde nonostante il talento.
Non succede. Ash ripete quello che sa fare meglio: non annoiarsi. Imbambola l’avversaria, non si fa sorprendere e il suo arsenale di colpi chirurgicamente assestati è ancora lì pronto, dove lo avevamo lasciato qualche anno prima, come se l’erba dei piccoli e la terra dei grandi fossero fatti della stessa materia.
Ash la butta dentro in smash, porta le mani sulla testa e la racchetta sulla rete. Omaggia l’avversaria, saluta e ringrazia. Applaude e si inginocchia col capo chino, qualche secondo per posare i respiri.
È l’8 giugno e sulla terra rossa Ashleigh vince il suo primo Slam, battendo 6-1, 6-3 una diciannovenne: Marketa Vondrousova.
All’indomani
di questa vittoria si sveglia numero 2 del mondo dietro Naomi Osaka, la
veterana di questa puntata, la talentuosa tennista giapponese che ha già
all’attivo un chiacchierato US Open, quello del 2018, e un Australian Open,
quello del 2019, il quinto posto in classifica generale nel 2018 e la
vittoria – bellissima – all’Open cinese del 2019.
PARTE DUE
Naomi è una tennista dalla firma particolare. È molto semplice, per un verso: se Naomi è nervosa, è troppo stanca, è altrove, la partita gira storta in poco. Se Naomi custodisce un fulcro dentro e lo coltiva e lo tiene vivo non succede niente di male. È una sorta di talismano, che propizia o offusca il suo gioco. E questo fa di lei una tennista solitaria, meditabonda, creata appositamente per il tennis.
Alla fine del secondo set della finale dell’Australian Open del 2019, Naomi esce dal campo con un’asciugamano in testa: ha vinto il primo, ha buttato all’aria tre palle match e ha subito la rimonta di Petra Kvitova nel secondo.
Si copre e se ne va, chiama a sé il buio e se ne sta in solitaria. Potesse chiudersi dentro una bolla, lo farebbe e probabilmente, nella sua testa, ha imparato a farlo perfettamente e alla svelta, perché quando rientra, ricomincia daccapo. Lascia nel silenziatore i primi due set e gioca il terzo come se niente fosse accaduto. Si dissocia, ritrova la centralità, focalizza ogni servizio, sceglie precisamente quando attaccare e si difende con prontezza. Vince, alla fine. Da sola. Con un’intimità invidiabile. È questo Naomi: è l’elogio della chiarezza delle intenzioni. Il suo super potere si attiva solo quando si muove nel suo spazio più profondo. Non necessariamente lo vediamo in chiaro o lo percepiamo; possiamo solo approcciarlo attraverso il suo corpo, osservarlo in azione come un rito millenario di cui non possiamo capire per davvero l’origine. Per lei, è un’uniforme corazzata: c’è qualcosa sotto ed è invisibile.
Ash e Naomi usano due modi opposti per risolvere la pressione: introspezione Naomi, rivelazione Ashleigh. E la chimica che deriva da questo incontro non dà come risultato un amalgama, anzi: c’è una delle due che soccombe. Tra Naomi e Ashleigh conta quanto la calma può sovrastare l’istinto; o quanto il talento vibrante può vincere contro quello potente e silenzioso.
All’Open cinese di Pechino a ottobre scorso Naomi vince su Ashleigh 3-6, 6-3, 6-2, in rimonta.
Nel primo set Naomi si lascia andare al pensiero di dover vincere per dimostrare qualcosa: l’anno di Ash è andato decisamente meglio, a parte Melbourne gli altri Slam non sono stati all’altezza e l’occasione della finale a Pechino è utile. Naomi perde il primo set con troppa facilità, Ash un po’ si rilassa: porta il gioco dove vuole e dove Naomi non si sente sicura. La rivelazione ha la meglio sull’introspezione.
Nel secondo e nel terzo, invece, Naomi si ricalibra, si riprende, si rinfila la corazza e ricomincia a fare perfettamente ciò che sa fare meglio: difendersi con diritti e rovesci potenti da fondo campo e controllare il gioco con servizi puntuali. Ciò conduce il gioco istintivo di Ash completamente fuori scala: o troppo largo, o troppo corto, e in generale poco incisivo.
Come con Serena Williams a New York nel 2018 e con Petra Kvitova a Melbourne a inizio 2019, anche con Ashleigh Naomi si appropria della partita attraverso un muto operare, diritto dopo diritto, con disciplina e fiducia, rovescio dopo rovescio, lasciando Barty scomporsi. Un pezzo alla volta. A ogni risposta dell’avversaria, Naomi ribatte, che sia faticoso o meno, che sia facile o meno, e Ash si spegne di fronte al metodo e si ammutolisce completamente, sbaglia facilmente, perde la bussola.
È interessante cosa Naomi dice del suo primo set dopo la partita:
«Mi sono detta che se fossi stata meno drammatica avrei potuto provare a vincere. Ed è quello che ho fatto nel secondo e nel terzo set.»
PARTE TRE
Bianca Andreescu, classe 2000, vince lo US open 2019 con il punteggio di 6-3, 7-5, sudandosi ogni palla, conquistando il tie-break, giocando tra l’incredulo e il possibile contro Serena Williams.
Considerare l’avversaria come una variabile impazzita può essere vero sempre: chiunque può trovarsi un’ora di un giorno in un torneo a compiere un’impresa. Quando quella variabile si chiama Serena Williams nel 2019 la questione è più complicata: la vedi sul campo e la partita cambia. Hai diciannove anni e te la ritrovi dall’altra parte della rete e la percezione di ciò che stai facendo ingigantisce, in modo consequenziale e non puoi evitarlo. La leggerezza, quella che ti hanno consigliato di immagazzinare e usare a tempo debito, per occasioni come questa, vola via in un secondo e rimani da sola, con i piedi ben piantati sul campo, le mani sudate e la concentrazione ballerina.
Se sei Naomi Osaka bevi la pozione della calma; se sei Ashleigh Barty la metti sul difficile, vai dritta per la tua strada e o la va o la spacca. Se sei Bianca Andreescu vai incontro alla stanchezza, la abbracci, la strapazzi e provi istintivamente a scioglierla.
Per ogni doppio fallo, scacci via il pensiero di aver buttato un punto, per ogni tiro lasciato andare troppo cogli quelli che l’avversaria sta allo stesso modo gettando. Umanizzi la divina e la porti al tuo livello, anche se è un azzardo. Istintivamente, te ne vai nel tuo angolino sicuro, quello sfrontato dell’istinto, e inquadri Serena nel contesto corretto.
A New York, Bianca e Serena animano la partita nel secondo set, confuso, falloso, prima tutto nelle mani di Bianca, che alza la posta e si fa sempre un po’ più arrembante e sempre un po’ più aggressiva, poi in quelle rinnovate di Serena che rimonta con un colpo di coda improvviso, con genio e l’esperienza e lo Slam rimane in bilico fino al 5-5.
Bianca porta l’intuito in prima linea, a rete, lo lascia carburare da fondo campo, lo sbottona sui rovesci in risposta e lo butta addosso a Serena. L’intuito la guida in un territorio pericoloso e portentoso insieme, dove lo stesso colpo può significare analogamente un azzardo o un vincente.
L’anno di Bianca lo ricorderemo a lungo per l’impresa contro Serena, certo, ma anche per la finale vinta a Indian Wells, torneo a cui arriva in qualità di sorpresa della classe e in cui inanella le seguenti vittorie: contro Garbine Muguruza ai quarti, Elina Svitolina in semifinale e Angelique Kerber in finale. Talento e attitudine non le mancano, ma il segreto del successo – lo ammette lei stessa – lo dobbiamo cercare nella cura della fase mentale.
Fin da piccolissima, Bianca esercita la meditazione e lo yoga. Ha una serie di rituali durante la partita, gioca sempre con un elastico per capelli a spirale sul braccio, ha un piccolo cuore tatuato sulla spalla sinistra, compie esercizi di mindfulness come la visualizzazione e ripete frasi motivazionali prima di rispondere o prima di servire: pare che «catch and stroke, acchiappa e colpisci», ad esempio, le eviterebbe l’oscillazione del movimento che tende ad avere sulle ribattute.
«Mi alzo ogni mattina e la prima cosa che faccio è meditare. Penso che mi aiuti ad avere un buon inizio di giornata. Non accendo il telefono o altro, per non esserne sopraffatta.»
Per
il momento, ha ragione lei. D’altronde il suo obiettivo è solo fare la storia.
PARTE QUATTRO
Se c’è una cosa che ammiro in un atleta è la capacità di ricominciare: riprendersi è una delle parabole che meglio nobilita gli esseri umani e rimanere immutabili è quasi sempre una condanna.
Belinda Bencic nel 2019 ha incarnato questo principio appieno: nel 2016 e nel 2017 ha sofferto per un infortunio e una operazione al polso, ha perso tornei e rilevanza, scivolando oltre la posizione 300.
Nel 2019 parte a inizio anno oltre la posizione 50 e finisce all’ottava, continuando la risalita iniziata già lo scorso anno.
Il suo merito principale è stato tornare, continuare a rincorrere i risultati, riuscirci solo a volte, e non per questo smettere di provarci; riprendersi la cocciutaggine che le è propria. In una parola: esserci.
Volendo prendere a esempio un momento su tutti dobbiamo sicuramente riferirci alla qualificazione per le WTA Finals, che è arrivata all’ultimo minuto: alle Finals Belinda arriva sino alla semifinale, risultato emblematico di tutto il suo anno: arriva in semifinale anche agli US Open, a Indian Wells, a Madrid.
Arrivare fino alla semifinale o perdere in semifinale in diverse occasioni a distanza di poche settimane significa ovviamente avere ancora qualcosa da risolvere per poter vincere e nel caso di Belinda significa continuare a costruire, ad allenarsi, a riprendere il ritmo delle vittorie. Il 2019 le è servito per assaggiare la risalita. Non doveva strafare, non doveva nemmeno arrivare necessariamente entro le Top 10.
Allo US Open, Belinda Bencic gioca contro Naomi Osaka agli ottavi e contro Bianca Andreescu in semifinale.
Contro Naomi usa un gioco veloce e tempestivo, va subito in vantaggio e non la lascia ragionare. Ma la prima chiave dell’incontro sta quando Naomi è in vantaggio 5-4 e Belinda si conquista il pareggio, costringendola al fondo campo, alla linea difensiva, sferrando attacchi profondi: il suo corpo reagisce bene, la supporta, fa come se non si fosse fermato mai.
Belinda ha un gioco particolarmente veloce ed è per questo un piacere vederla giocare; la qualificazione degli ottavi non è mai in pericolo reale, nemmeno quando Naomi è in vantaggio perché le accelerazioni di Belinda, quando ci sono, sono limpide e rispecchiano perfettamente le possibilità di entrambe.
In semifinale, Belinda contro Bianca gioca una partita rischiosa e un po’ meno brillante: tanto il suo corpo l’aveva aiutata prima quanto diventa meno reattivo dopo. Sta misurando il limite.
I punti importanti di Belinda sono concentrati, infatti, nel primo set, quando sembra addirittura che possa spuntarla.
Nel primo set conduce 2 a 1, poi 4 a 3 e sul 6-5 quando sono 15 pari, Belinda subisce qualche colpo in velocità e un pallo netto, ma non esce dalla partita, anzi: ci prova ancora a portarsi avanti ed è solo un diritto incrociato largo perché stanco che la fa perdere il primo set.
Nel secondo Belinda è sul 3 a 1 quando inventa un gioco più aggressivo, a rete, accorcia le distanze degli scambi, mentalmente e fisicamente, finché subisce il break al gioco successivo e dal 4 a 1 finisce 4 a 2 sul suo turno di battuta. La svolta è questa. Il succo di perdere la semifinale è tutta qui: in un turno di servizio non conservato, nella fatica e nelle energie consumate.
Asleigh Barty, Naomi Osaka, Bianca Andreescu e Belinda Bencic sono tenniste senza dubbio speciali: atlete diverse, ognuna con una storia peculiare, hanno saputo dare un’impronta alla stagione e ci hanno sussurrato – a volte in realtà ci hanno urlato – che il futuro sta arrivando, che quel rinnovamento che stavamo aspettando è qui e dobbiamo fare il tifo perché duri: solo in questo caso ci sarà da divertirsi.
Non perdiamoci di vista!
Le informazioni su Volée le trovi a questa pagina; se vuoi iscriverti alla newsletter mensile a tema puoi farlo a questo link.