Esordire/Esordio

Cover de Il terzo incomodo, di Elena Marinelli, Baldini & Castoldi

Il terzo incomodo ha esordito da più di un anno. E se dovessi dire che è invecchiato non posso (ancora). Sta lì, ha trovato finalmente posto nella mia libreria, ci siamo pacificati. Ci vogliamo bene più di prima: è arrivato il momento di dire che staremo insieme per sempre.

Dove vanno i libri?

Dopo pochi mesi dal mio primo stage in una casa editrice, arrivarono altri stagisti. Un collega si divertì a chiedermi come mi sentissi, ora che non ero più io l’ultima. Dissi: «Come quando spostano un libro dal banco novità allo scaffale per autore.» Avevo dimostrato di avere imparato qualcosa. E lui ribattè: «Sei a catalogo, ormai. Pensa quando diventerai una resa.»
Facili battute da ufficio commerciale ai tempi in cui l’ebook non c’era ancora.

Il primo anno

In questo anno sono successe alcune cose importantissime attorno a questo libro, altre (molte, perché negarlo?) invece sono state pura ambizione.So di aver convinto degli scettici. È un gusto infantile, lo so: vedere nello sguardo di qualcuno che non avrebbe mai letto niente di tuo più di un sincero apprezzamento: un moto a favore.

Ho ricevuto mail da sconosciuti che hanno letto il libro fomentati da amici di amici.
Quella del signor T. (una parte) la riporto di seguito:

«Ho letto il suo romanzo perché me lo ha consigliato un amico, credo anche suo. Un amico che fa sempre buone letture, perciò mi fido di lui. L’ho letto e mi è piaciuto. Lo sapevo fin dalle prime righe. Lei scrive molto bene, ma è superfluo dirlo. La cosa che mi ha colpito è che non saprei paragonarla a qualcuno in particolare. Lei scrive come tanti bravi autori che ho letto e nessuno insieme. Glielo dico perché lo percepisco come un pregio. […] Volevo an che dirle che c’è una parte, verso la fine del suo romanzo, che porterò con me perché mi ha ricordato una serie televisiva che ho amato molto, di molti anni fa, lei era giovane, forse non l’ha nemmeno vista. La parte in cui Teresa e Marianna preparano il corpo. La serie era Six Feet Under: la recuperi, se riesce, se posso darle un consiglio. […] Un saluto, spero di leggere altro di suo.»

Grazie, signor T.: lei mi ha fatto, senza saperlo, un complimento gigantesco.

Siamo arrivati in finale al Premio Augusta in mezzo ad altri libri che avevano ricevuto più attenzione del mio di sicuro e ci siamo piazzati secondi. Questo fatto, poi, ne ha portati a cascata altri due o tre non indifferenti, che però rimangono miei e custoditi per bene.

E quindi?

Esordire a trentatré anni poteva accadere solo in questo tempo, dove tutto è spostato in avanti: lavorare, esordire, fare figli. Si è sempre in tempo. «Sei ancora in tempo» è la frase che più mi hanno ripetuto negli ultimi anni. E infatti spesso ne perdiamo, di tempo, che è il rovescio della medaglia dell’essere sempre giovani.
Se gli anni che passano servono a tirare una riga e fare i conti, meglio se a mano, si allena la mente, posso dire che essere in tempo è una fortuna e un disagio al tempo stesso.

La fortuna è facile da sostenere, il disagio è il seguente: scrivere fa parte di una vita parallela che si cerca incessantemente di coltivare, allenando il cervello al retropensiero continuo, al pensare in due direzioni, costantemente, a non riposare la mente quasi mai.

Chinatown, giorni nostri

L’immagine che ho in mente è sempre la stessa: il retro di un ristorante a Chinatown a New York con la pioggia obliqua.
Sono stata a New York per la prima e unica volta nella mia vita a maggio del 2015. Sono stata a Chinatown un pomeriggio in cui pioveva fortissimo, obliquo appunto, sulle vetrine, le tende e le insegne degli esercizi commerciali, davanti ai fari delle automobili che si infilavano in spazi proibitivi.

Ho guardato questo spazio di Manhattan, un incrocio e niente di più, defilata a un angolo della strada. Venivo superata dalla persone che correvano per ripararsi, per entrare nei negozi, da quelli che uscivano dai ristoranti e ho buttato lo sguardo in un’apertura laterale, un vicolo avrei detto, se fossi stata in un paese italiano qualunque; niente altro che il retro di un ristorante dove erano accatastati banconi, cellophan, scatole di plastica, dove un uomo con un poncho per la pioggia a quadrettoni verdi cercava forsennatamente di riparare ciò che poteva, si affannava, imprecava e guardava in alto per cercare uno spiraglio di sole.

Ho sempre pensato che quell’uomo avrebbe mollato, dopo aver messo in salvo il possibile.

Invece, dopo due minuti in cui mi sono distratta per controllare la strada da prendere per spostarmi da lì, me lo sono ritrovato davanti, dentro alla folla che mi sorpassava, dritto a urlare a un ragazzino intento a farsi i fatti suoi e della pioggia obliqua, di andare dentro. Parlavano il cinese veloce che ti aspetti, non ho capito niente, vedevo solo quel dito puntato verso l’interno e con curiosità mi accertai che entrambi, ognuno col suo poncho verde a quadrettoni, continuò il lavoro di messa al riparo di quegli oggetti.

Silenziosi. Muti. Veloci. Agili.

Non mollò, il tizio: cercò nuove risorse, per continuare a fare ciò che stava facendo, riposizionandosi, tranquillizzandosi, accorciando i gesti; aveva già l’esperienza per continuare meglio di prima.
Era il momento di andare, per me. Avrei voluto vedere se alla fine avrebbero sistemato tutto, senza rovinare niente.
Ci sono dei giorni che penso di sì, che abbiano finito e abbiano bevuto qualcosa di caldo, dopo. Altri che no, che abbiano rinunciato, calciando forte e di punta lo stipite della porta.