La dieta delle parole. O del dialetto

Immagine presa da qui: https://www.reteitalianaculturapopolare.org/archivio-partecipato/item/1473-vocabolario-ragionato-del-dialetto-di-casacalenda.html

In principio

Dovevo avere otto anni. Al paese, c’era in edicola il Vocabolario ragionato del mio dialetto. Lo comprammo.

Copertina del Vocabolario ragionato del dialetto di Casacalenda, Edizioni Enne
Immagine presa da Rete italiana cultura popolare.

Il dialetto casacalendese non è parlato in Molise: è parlato a Casacalenda, somiglia ad altri ma non è come gli altri. È una caratteristica comune a tutti i dialetti della mia regione. Si parlano, ammiccano più o meno consapevolmente l’uno all’altro, ma non si specchiano mai. Non lo aprii fino alle medie e chiamarlo vocabolario mi risultava difficile, era un libro.
Era un libro nella dimensione in cui mi faceva scoprire una cosa che fino ad allora non sapevo.

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Ho iniziato a leggere per questo, mica per altro: mi pareva, in generale, che i libri mi dicessero la verità senza che dovessi cercarla da sola. Avevano tutto, non c’era bisogno di inventarmi niente. È stata solo pigrizia.

La sospensione

Quel vocabolario non aveva molte delle parole che mi appartenevano, in quel momento. Il dialetto era una lingua molto gentile, anche se rozza e ruvida, piena di consonanti, difficile per la mandibola e scivolosa per la lingua. Il mio dialetto non è così semplice. Il mio dialetto, però, non ha tante delle parole che mi appartenevano a 12 anni.
Ci ho pensato oggi per un motivo stupido: ho aperto la mia bacheca di Facebook dopo tanto tempo e ho notato a sinistra, sotto il profilo una domanda a cui dovrei rispondere, affinché voi, i miei amici, mi conosciate meglio. Diceva di indicare il mio soprannome. Non ne ho mai avuto uno in particolare. A meno di nomi inventati, abbreviazioni o regionalizzazioni del mio.

Tranne uno, a 12 anni.

Un pomeriggio ho cercato quel soprannome, che era più un aggettivo che un soprannome, su quel vocabolario e non l’ho trovato. Non c’era un corrispettivo, ma me lo affibbiavano continuamente, in quel periodo, ogni giorno a scuola, in dialetto. O almeno: io pensavo fosse dialetto. Era una versione dialettizzata di una parola italiana specifica.
Non saprei dire nemmeno ch se l’era inventata. Nel mio ricordo c’è una voce unica che la pronuncia, una serie di consonanti grasse e grosse, una parola che inizia come uno sbotto e finisce in sospensione. Mi arrivava rotolando veloce, e si fermava ad aspettarmi.

La sospensione serviva a questo: mi chiedevo sempre cosa potessi fare, o rispondere. E non lo sapevo.

Imparare a parlare

Ho fatto una dieta, prima, perché dalle sospensioni incurabili non si può scappare, credendo che per parlare dovessi essere magra, prima. Ho fatto tutto il necessario, ho ceduto, ho desiderato non non sentire più una parola e ci sono riuscita, ma nel frattempo ero molto arrabbiata e mi arrabbiavo sempre di più con chiunque, perché non sapeva parlare, mentre io imparavo a farlo.

«Per anni di fila siamo state io, la donna che mi consideravo mentre vivevo nella mia testa e la donna che doveva portare in giro un corpo sovrappeso. Non eravamo la stessa persona. Non potevamo, altrimenti non sarei sopravvissuta.» (Roxane Gay, Fame, Einaudi, pag. 107. Trad. it. Alessandra Montrucchio)

Sto leggendo il saggio qui sopra. È una fortuna, una liberazione e una dichiarazione di guerra al tempo stesso, ma mi manca l’ultima parte, devo fare una pausa.
Sono ancora convinta che i libri possano raccontare la verità e che imparare a parlare sia una delle fatiche più grandi dell’essere umano.