Ep. 1 | Casa dolce casa

Di seguito il testo completo di Casa dolce casa, il primo episodio di Volée – Un podcast sul tennis, uscito il 18 novembre 2019.


Casa dolce casa è la storia dedicata a Serena Williams e allo US Open, un rapporto fatto di ansie e soddisfazioni, grande coinvolgimento e brutte figure; un rapporto che nasce nel 1999 e forse non è ancora finito per davvero.


Se volessimo racchiudere in una parola l’esperienza di Serena Williams allo US Open dovremmo scegliere un concetto interminabile, spesso ambiguo, tutt’altro che facile da spiegare: casa.

Casa ha a che fare in modo speciale con lo US Open, perché è durante la finale del 1999 di questo torneo che per Serena nasce l’affare di famiglia, un microcosmo nella sua carriera, un insieme di sogni realizzati e cuori infranti. La prima casa è a ovest, a Compton, in California, dove Serena è cresciuta assieme alla sua famiglia: mamma Oracene, papà Richard – soprattutto papà Richard – e quattro sorelle. Compton si trova nella parte meridionale della contea di Los Angeles: è un posto fatto di strade larghe, case di stucco bianche con un cancello leggero, dove il suono della pallina da tennis è ciò che di più fragoroso puoi sentire nel raggio di chilometri.

PARTE UNO

C’è stato un tempo in cui pensavamo a Serena Williams come a una giocatrice normale, e l’abbiamo sottovalutata. È durata per qualche anno, erano gli ultimi anni Novanta, e ci siamo cascati tutti almeno una volta; io solo una perché ero molto giovane e quando si è giovani si tende a dare il beneficio del dubbio ai propri coetanei. Fino al 2002 Serena attende e studia e il successo del 2002 non è accidentale, non capita perché improvvisamente è diventata brava, lo è sempre stata. Lo è fin dal 1999.

In quell’anno, al Flushing Meadows–Corona Park, nel Queens, a New York, Oracene Price esibisce il suo sorriso migliore, quando sono passati due set emozionanti dopo i quali Serena sta per conquistare il suo primo Slam, il suo primo US Open, la sua prima folla. Oracene ha grandi ricci e di solito la faccia seria, ma quel giorno no: guarda la sua bambina da quando era piccolina e nessuno credeva in lei.

Serena ha 17 anni quando vince quel giorno nel 1999. Prova per la prima volta la vibrazione più intima e pura: ogni volta che metterà piede in quello stadio sentirà il suono di quella corda; poserà le cuffie sulle spalle a ogni ingresso, le luci basse non la distrarranno, i rumori della folla tenui e poi giganti la coccoleranno.

Il pre partita si gioca su una questione di bocca larga. Martina Hingis, numero 1 del mondo, rintraccia nella famiglia Williams una caratteristica comune: la tendenza a chiacchierare troppo e prima dei fatti: sono tutti rane dalla bocca larga, dice; non crede affatto che entrambe le sorelle si sarebbero scontrate in finale, perché in mezzo all’idillio di famiglia c’è lei ed è pronta a ostacolare la festa. In effetti a contendersi la finale è stata proprio Martina contro Serena, non Venus.

Alla fine della partita, Serena dà un’occhiata veloce alla sua bocca e ne esamina la misura: no, non è larga. Per niente. In conferenza stampa dirà: «È stata sempre il tipo di persona che dice le cose… dà voce ai pensieri. Credo che abbia a che vedere con il fatto di non avere un’istruzione formale.»

Quella con Martina è una rivalità lampante: quasi coetanee, entrate nel tennis professionistico a un anno di distanza, la svizzera è una miccia esplosa in un battibaleno, un talento puro e veloce. Serena no: Serena studia, Serena aspetta, poi colpisce. Martina cerca sempre di dare al gioco di Serena un tocco di finezza, di leggerezza, qualcosa che combatta quello muscolare. La questione tra loro non è mai chi gioca nel modo migliore, ma a che profondità si scoprono diverse, quanto si allontanano l’un l’altra a ogni punto. La finale dello US Open del 1999 è da parte di Serena un continuo rimproverare i tentativi di finezza, occultando lo spazio e il tempo, infilando potenza in ogni ombra e disagio. Nasce così, l’affare di famiglia.

«A 17 anni ho vinto il mio primo Grande Slam, e sapevo di avere molto in me. Infatti, ero talmente sicura che quando ho fatto le valigie e lasciato la casa di mio padre per andare a vivere con mia sorella Venus, gli ho detto che avrebbe potuto tenere il trofeo del mio US Open. Non preoccuparti, l’ho assicurato. Ne prenderò un altro per casa mia.»

Il nuovo logo dello US Open

PARTE DUE

La famiglia Williams non è come le altre: tutte le sorelle, a un certo punto della loro vita, hanno pensato di dedicarsi al tennis, ma l’unica che più di ogni altra era destinata a farlo per mestiere era Venus.

«Direi così: Venus mi faceva una grande ombra. Era più alta, più carina, più rapida, più atletica. Ed era certamente più brava.»

Venus e Serena Williams hanno un anno, tre mesi e nove giorni di differenza, esordiscono nel circuito professionistico a meno di un anno di distanza e Serena è ritenuta la sorella meno capace, meno esplosiva e meno talentuosa, almeno per qualche anno.

Il momento in cui fa ricredere chiunque è durante il primo grande anno di Serena, il 2002, quando le due sorelle terribili giocano le tre finali del Roland Garros, di Wimbledon e dello US Open e per tutte e tre le volte Serena batte Venus. La vittoria dello US Open, l’ultima in ordine cronologico, celebra la costanza, l’uccisione della regina in carica, Venus appunto: a fine estate del 2002 Serena sarà la numero uno al mondo, per la prima volta.

«Tutta la mia simpatia va ai fratelli minori, a tipi come Eli Manning e Patrick McEnroe. Sei sottovalutato da tutti prima ancora di cominciare. Per tutta la vita, crescendo, siamo predestinati a restare dei perdenti.»

All’inizio degli anni Duemila le sorelle Williams mettono in scena uno spettacolo prepotente, una creatura a due teste che si manifesta in modo lampante durante le partite di doppio che onorano insieme, unite e imprescindibili. In quegli incontri Serena fa da spalla alla sorella, la sostiene dal fondo campo, coprendole le spalle, quindi non può esserci un altro modo per farlo da parte di Serena: deve batterla e deve farlo sorprendendo tutti; non una volta, nemmeno due, ma ben tre.

Se tirassimo una linea immaginaria che tocca tutte e tre le finali, saltando dalla terra di Parigi all’erba inglese sino a giungere al cemento di casa troveremmo un’accelerazione progressiva, una spinta metodica e al contempo spasmodica, in cui Serena acquista un passo alla volta sicurezza e determinazione che culminano nello stadio newyorkese, un pomeriggio di inizio settembre. Il risultato racconta una storia di vittoria netta, 6-3 6-4, ma il viaggio non è così lineare.

Innanzitutto Venus parte con più grinta, con il vantaggio mentale dalla sua parte. Apre lo spettacolo nel miglior modo possibile: ricordando in primo luogo alla sua avversaria perché avrebbe potuto vincere in qualsiasi momento. Qualsiasi Slam, su qualunque superficie, in tutte le condizioni possibili. Una delle cose che Serena racconta molto spesso è che per lei Venus è un esempio. Credo che questa sia stata l’unica vera costante di tutte le vittorie di Serena sulla sorella: l’umiltà di imparare da lei, giocando. Copiarle i colpi migliori, le esecuzioni puntuali, la determinazione mentale e nel 2002 a New York succede per la prima volta una cosa speciale: durante la finale Serena rielabora e interpreta. È pronta a staccarsi da Venus, a competere con lei, nel senso etimologico del termine, a incontrarla e dunque batterla.

«Era lei l’attenzione principale, oggi lo capisco. Capisco che Venus meritava tutta quell’attenzione in più. Capisco che sia possibile allevare un solo campione… fino al giorno in cui alzi lo sguardo e ne hai allevati due.»

La rivalità tra Venus e Serena Williams, almeno nei primi tempi, è una questione di corpo: uno, quello di Venus, esplosivo e suadente, che sceglie, quasi come predestinato, il movimento migliore, uno di quei corpi che non raccontano la fatica, né lasciano stracciare l’involucro sottile che li avvolge. L’altro, quello di Serena, cresciuto adattabile, flessibile, superlativo per approssimazioni progressive.

La conquista del corpo che Serena compie credo che sia alla base della sua interpretazione personale del gioco di Venus e da questa consapevolezza, prima che da ogni altra, Serena costruisce il suo regno. A un certo punto, alla fine della sua adolescenza tennistica nel 2002, Serena si rende conto che non le basta seguire la linea, sforzarsi di essere in quel modo peculiare di Venus, perché, semplicemente, non è lei. È un altro essere umano, un’atleta formidabile, con risorse infinite. L’unica cosa che può fare è diventarlo anche per gli altri.

PARTE TRE

Il primo US Open in cui Serena Williams gareggia dopo il fatidico 2002 è il 2008.

Sei anni senza poterci nemmeno provare, sei anni in cui le succedono due infortuni, altrettante operazioni chirurgiche, la rinuncia ai campi di tennis per otto mesi, la riabilitazione, il lutto per la perdita della sorella Yetunde, la depressione, l’uscita dalle prime 100 della classifica mondiale, la conquista di due soli Australian Open.

Sei anni possono accompagnare la caduta per chiunque, ma per Serena sono stati gli anni della moda e di altri interessi fuori dal campo che le permettono di affrontare la riabilitazione e gli scenari peggiori, i momenti in cui, cioè, casa non è più un campo con una pallina, anzi: il tennis ha solo le sembianze ostili della sconfitta, porge il fianco all’affacciarsi di un drago ostile. Non vedo come recitare o disegnare vestiti possa essere comparato all’orgoglio di essere la migliore tennista del mondo.

Il 2008 è il ritorno con i fuochi d’artificio, fino, di nuovo alla cima della classifica mondiale. Il passaggio dovuto è il terzo titolo US Open: dopo un intero torneo giocato di nuovo a livelli ottimi, incenerendo le avversarie ai primi turni e costruendo l’arrivo in finale con il solito inconfondibile piglio, domenica 7 settembre 2008 Serena Williams vince il titolo contro Jelena Jankovic con il punteggio di 6-4, 7-5, ha 27 anni e incredibilmente una nuova carriera davanti.

Da questa finale del 2008 a quella successiva del 2012, Serena torna ai livelli di campionessa. Vince molto, convince ancora, come se fosse una nuova giocatrice ad affacciarsi ai tornei che contano, e compie la seconda rivoluzione: dopo aver dato un’impronta al tennis, assieme a Venus, nei primi anni 2000, cambia l’anagrafica del gioco: nel 2012 lei ha 31 anni e si unisce al coro dei tennisti che alla loro età non hanno affatto finito di vincere.

Gli anni dopo il 2008 e dopo il 2012 sono quelli in cui il tennis femminile cerca, invano, l’erede di Serena Williams. Abituati ad atleti giovani, convinti nel dire che il tennis è uno sport che mortifica e uccide, fin da giovani, Serena – e con lei Roger Federer ad esempio – ci dimostrano il contrario: il meglio deve ancora arrivare.

Le finali dello US Open del 2008, quindi, è importante perché inizia la seconda vita di Serena Williams e il 2012 ne segna uno spartiacque fondamentale: è la finale tra Serena Williams e Victoria Azarenka, una partita passata alla storia del tennis come una delle più entusiasmanti finali di singolare femminile dell’era Open, cioè da quando il tennis è uno sport professionistico.

Serena vince 6–2, 2–6, 7–5 nonostante Vic stesse servendo per il match sul punteggio di 5 a 3 nel terzo set. L’abitudine alla conquista, la capacità di rincorrere il momento peggiore, afferrarlo e inghiottirlo è una delle migliori prerogative di Serena. Ha due mani, due gambe, due piedi, certo, quindi sembra innaturale che riesca a fare l’impossibile, ma il carattere sta nel risalire la corrente quando nessun altro potrebbe farlo. Non è un’atleta fatta per sfide comuni o partite facili. Dove non c’è grinta da usare si sente quasi inutile. E maggiore è l’occasione della sconfitta, più grande la possibilità di perdere, enormi saranno le probabilità che Serena torni dall’Inferno e salti dritta dritta verso il Paradiso.

Dalla finale dello US Open del 2012 impariamo, una volta in più e per non dimenticarlo mai più, che Serena Williams è un essere umano speciale. Non è solo fisico, non è solo talento, non è semplicemente un movimento o la scelta del colpo giusto. È un modo d’essere imbattibile. C’è un punto preciso di quella partita in cui lei decide la sua vittoria, perché le basta questo: affidarsi a sé stessa. Quel momento è nel terzo set, mentre prepara il discorso della sconfitta, quando vede la sua avversaria insormontabile. Victoria sta effettivamente giocando il suo tennis migliore e ci arriva in rimonta: dopo aver perso scivolosamente il primo set, conquista il secondo, portando la partita non solo in parità di punteggio, ma anche in parità di condizione mentale.

Due capovolgimenti di fronte: uno a sfavore di Azarenka, l’altro a sfavore di Williams. Nel primo caso per colpi troppo poco incisivi, nel secondo per scarsità di concentrazione. Serena si ritrova a un passo dalla sconfitta del torneo per incuranza. Ed è inaccettabile. Sul 5 a 3 del terzo set, Azarenka sa che le basta davvero poco e che la sua avversaria in fondo è battibile: quel giorno, per qualche ragione, lei è più forte e sicura; Serena invece è in gabbia. Dall’altra parte del campo, mentre Azarenka serve per il match, Serena non ha niente da perdere. Lo ha imparato: non c’è molto che deve dimostrare, nessuno le avrebbe chiesto conto di una sconfitta. Eccetto, ovviamente, lei stessa.

All’inizio del nono game, Victoria torna in campo mimando quasi un ruggito: non ha paura di chi ha di fronte, si vede. È spavalda. Ha rimontato. L’inerzia è dalla sua. Serena, dal canto suo, si prepara a servire, con un occhio sul rimbalzo della pallina e uno dritto all’avversaria. Serena si prepara, Serena studia, per utilizzare il gioco successivo per mantenere il servizio, per non affondare. Si resetta, torna indietro e senza guardarsi attorno torna sui suoi passi, assumendo per certo che se qualcosa è andato storto deve stare nella sua parte di campo.

Porta l’avversaria a strafare, per raggiungerla. Serena si risolleva e gioca in modo equilibrato, con sottili e perfetti movimenti e Victoria cerca invano di correre per acchiapparla. Serena vince e vincerà a casa sua anche nei due anni successivi e finalmente Flushing Meadows-Corona Park, nel Queens, New York tornerà ad avere il sapore dolce di casa.

PARTE QUATTRO

Ogni volta che un ciclo di vita tennistica di Serena Williams si chiude, in molti sottolineano il fattore anagrafico – sarà sempre più complicato tornare a giocare a livelli alti a una certa età, dopo una gravidanza, dopo i problemi di salute – e quello emotivo – Serena non regge più la pressione. Nel 2018, durante la finale dello US Open Serena torna a casa con il ricordo di uno dei momenti peggiori della sua carriera. Momenti dentro una partita giocata malissimo.

La finale è tra Serena Williams e Naomi Osaka, giovanissima tennista ventunenne alla sua prima finale di Slam. Tutti emozionati, giapponese per prima, Naomi si confronta con il gigante del suo sport, il monumento adorato e tifato tante volte. Fibrilla. Brilla.

Nel primo set, quando Osaka è avanti 4-1, l’allenatore di Serena, Patrick Mouratoglou, le fa un gesto dagli spalti con le mani, interpretato dall’arbitro di sedia come un consiglio di coaching, un atteggiamento vietato dal regolamento durante le partite. Prima ammonizione.

Serena non è d’accordo, lo dice. Non si concentra, sbaglia tante volte, troppe. Perde il primo set 6-2.

Nel secondo, sul 3-2 per Osaka, Serena è frustrata, spacca la sua racchetta a terra, ricevendo una seconda ammonizione e un punto di penalità dall’arbitro. Si infuria, torna all’episodio precedente, dibatte per una decisione che non trova corretta. Chiama l’arbitro ladro, thief: lo dice chiaro e tondo, thief e viene penalizzata di un game.

Perde 6-2, 6-4.

In conferenza stampa Serena dirà di non aver sentito il suggerimento e per questo essersi ribellata all’ammonizione per coaching; non è la prima volta in cui Serena discute con l’arbitro nella sua carriera, non meno e non più di tanti altri tennisti. Il punto della faccenda è l’esempio che ne deriva: va oltre la partita e il torneo perso, ma si piazza proprio al centro della brutta figura. Serena Williams è cresciuta con la convinzione reale di essere d’esempio a molte, dentro e fuori dal campo. Di aver acquisito uno status tale che da lei ci si aspetta un’eredità diversa dagli altri, diversa dalla media, differente da qualsiasi collega maschio. E quell’ammonizione che equivale al non aver rispettato una regola, quindi al barare, le brucia perché definisce una totale mancanza di esempio.

Nella retorica della «madre che non può imbrogliare», riversata sull’arbitro, c’è questo: una brutta figura e il finale di partita distrutto per sempre, un ricordo incurabile, l’impossibilità di concentrarsi su Naomi Osaka che avrebbe vinto ugualmente, anche senza penalizzazioni e l’incapacità del pubblico di focalizzarsi su una giovanissima al suo primo Slam.

«Hei, Naomi! Sono Serena Williams. Come ho detto sul campo, sono così orgogliosa di te e sono davvero dispiaciuta. Ho pensato di aver fatto la cosa migliore per me stessa. Ma non avevo idea che i media ci avrebbero messo contro. Vorrei avere l’opportunità di rivivere il momento.»

Vorrebbe non aver parlato, vorrebbe che quel momento Naomi avesse potuto viverlo come è giusto che sia: con tutti i riflettori puntati, come è stato per lei la prima volta nel 1999. Naomi non l’avrebbe mai dimenticato. E non avrebbe mai dimenticato quello che è accaduto. Ma come in un mondo che per una volta è sempre migliore rispetto a quello che si crede Naomi le risponde di non preoccuparsi. Che non c’è stato niente di sbagliato. Le scrive: «la gente può confondere la rabbia con la forza perché non sanno la differenza.»
Naomi le chiede di continuare a lottare per sé stessa. Come al solito.

Icona, ribelle, fiera e intransigente: questa è la adesso Serena Williams e questo è il tempo dell’oltre Serena.
Serena Williams è rinata tennista, almeno tre volte. È rinata madre e stilista di moda, ma rinascere è un verbo furbo: apparentemente semplice, dentro sembra esserci solo «nascere», e il sapore di casa, e quel prefisso breve, «re» lo rinnova; in realtà può diventare la missione ossessiva di una vita intera.


I virgolettati della puntata sono tratti da Serena Williams. My life, pubblicato in Italia da Edizioni Mare Verticale nel 2015.


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