Caro Osvaldo

1. Tu sì che capisci le donne.
2. Tu sì che dici le cose come stanno.
3. Tu non sai cos’è la nostalgia.

Il segreto di Rita non è un vero segreto: lo dice a tutti, perché non può farne a meno. E’ come il suo nome. Si presenta, Rita, piacere e poi aggiunge quasi sempre una volta sono impazzita per amore. Pare non sia più guarita. E lo dice con un sospiro dopo il nome, per un attimo impallidisce e diventa piccola, ma non abbassa lo sguardo.
Aveva un telaio e non sapeva a memoria gli orli, metteva i vestiti con le scollature forti, rideva poco perché pensava di avere una brutta bocca e si copriva le orecchie coi capelli lisci e lunghi, non li raccoglieva mai; odiava i foulard, mentre adesso ne è piena, ne ha uno intorno al collo sempre e poi alcuni sulle dita, come sua madre, quando se li legava al dito per ricordarsi le cose da fare. Il giorno del matrimonio di sua figlia aveva un fiocco per ogni dito e un foulard intorno al collo.

Sono impazzita il giorno del mio matrimonio, non riuscivo a usare più le forbici.
Come sei impazzita? A me non pari mica pazza.
Sto bene solo sul metrò, devo muovermi, di notte vado in giro per tutta la città, sono pazza davvero, sai. Devo muovermi per pensare e sto bene solo se penso perché se penso ricordo e mi viene nostalgia.
e lo dice come se essere pazzi fosse avere i capelli neri, al massimo una colica che spunta ogni tanto.

Ma perché sei impazzita Rita?
Per colpa della nostalgia.

Alla nostalgia basta un ricordo solo, non serve un album intero. A me basta un ricordo, un suono, anche solo una nota, ripetuta e ricorsiva, e lei arriva, mi fa cadere, cercare la canzone mentre guardo fuori, non so nemmeno io dove, anche se ho freddo, mi fa aprire le tende anche se entra il sole delle tre dritto sulla mia nuca. Un ricordo solo, nemmeno eccellente, nemmeno troppo importante: c’è, anche fermo e immobile, sono io che gli vado incontro.

Allora per una volta mi sono rassegnata alla nostalgia e sono impazzita.
Ma poi finisce la nostalgia a un certo punto, no?
No, non finisce. Anche io l’ho sperato. Tu non sai cos’è la nostalgia. La nostalgia è cronica.

Rita mangia sempre le stesse cose, è la sua nostalgia: schiava delle mosse e delle reazioni che le si strofinano sul corpo, della previsione esatta di quello che deve capitare alla prima nota di quella maledetta canzone, ogni volta che dalla finestra vede la luce spegnersi tra le undici e mezzanotte e inizia a camminare.
Con gli occhi di fuori e crepati di sangue, di tristezza e d’amore Rita fa sempre lo stesso percorso, calpesta un prato a un certo punto della notte per sentire l’erba che scrocchia sotto le suole, come fossero ossa, o affonda nel fango se piove; si siede su uno scalino di una casa disabitata, a fatica, guarda il solito punto, sul marciapiede, dieci metri a destra, la mattonella dove stavano i suoi tacchi, riascola tutte le parole e vorrebbe diventassero corpi, di nuovo, aria che esce dalla bocca e forma le nuvole.
Vorrebbe che quel ricordo durasse per sempre, è l’unica cosa che ho dice, è l’unica cosa che mi rimane, è l’unica cosa che posso vivere. Vive la nostalgia, ci passa dentro ogni volta che può, si rialza e se ne va, continua a camminare, poi si appoggia a una staccionata di legno, nel mezzo, si tiene la bocca con l’altra mano e piange, con singhiozzi afoni.

Tutto questo? Ogni notte?
Quando mi prende la nostalgia, e mi prende spesso, quasi ogni notte. E meno male che mi prende, rifaccio tutto, meno male che mi prende.
Rita…
Scendi, siamo a Lambrate, ci vediamo domani.

Corro via, aspetto che il treno si chiuda e riparta, la guardo dalla linea gialla: si è alzata e si tiene al poggiamani, cammina in senso contrario e si siede da un’altra parte, voltandomi le spalle.