Caro Osvaldo, terza parte

Questa è la terza parte di Caro Osvaldo, un diario con la scusa della quarantena, dal 26 marzo al 5 aprile.

26 marzo 2020

Caro Osvaldo,

moriremo seppelliti dai lavoretti di Paolo. Lavoretti con lo zucchero colorato dai pennarelli che sembra brillantini, lavoretti col collage, lavoretti con il rotolo terminato della carta igienica – il lievito manca ma la carta igienica c’è – lavoretti con la carta velina colorata, lavoretti della Pimpa. Colorare la Pimpa, disegnare la Pimpa. Meno male che abbiamo tredici numeri della Pimpa, anche se quello di aprile è in ritardo. Lavoretti con scatole di cartone che diventano case per cagnolini e mucche, oppure per cavalli e conigli oppure per i panda giganti e le giraffe. Case con porte verdi e finestrone da cui guardare la savana.

E poi moriremo seppelliti dai disegni. Con le tempere, con i pennarelli, con i pastelli. Quelli a mano libera – che sono per lo più case grandi e comode per leoni.

Oggi ho preso la situazione in mano e abbiamo giocato al gioco del mondo. Abbiamo disegnato i numeri con lo scotch carta e ci abbiamo saltato dentro. Prima io, poi Paolo, poi Simone. Paolo rideva, nonostante tutto. Saltava e rideva. Quando il salto era particolarmente ben fatto, elegante, con i piedi che terminavano pari e giunti, rideva più forte, faceva un giro della stanza e diceva «Goal!», qualche volta ci dava il cinque.

La vita, come un commento di un’altra cosa che non raggiungiamo, e sta lì, alla portata del salto che non facciamo.
(Julio Cortazar, Il gioco del mondo).

27 marzo 2020

Caro Osvaldo,

a proposito di canzoni: Paolo si è fissato con Hakuna Matata e Rebellion (Lies) degli Arcade Fire. Dice che vuole essere il tamburista che in un video live che adora finisce testa dentro il tamburo, fracassandolo. Per Hakuna Matata, invece, preferisce essere sempre Simba. Al momento opportuno oscilla la testa come Simba mentre gli cresce la criniera.

Sto inviando ai colleghi ogni mattina la canzoncina della mattina. Un link di un video a YouTube via mail. Ho iniziato per colpa delle Supremes: hai presente quel video su YouTube del loro live in bianco e nero? Uno dei, certo. Baby love, my baby love. È iniziata così e non mi sono più fermata. Sono gentili tutti, come al solito, mi rispondono commentando.

Non ho diminuito la dose di caffè giornaliera e non ho aumentato il tempo per me, per le letture che non ho mai fatto, per i film che non ho mai visto o per quelli che vorrei rivedere. Faccio sempre le stesse cose tutti i giorni e non mi rimane alcun tempo e se non fosse per il libro da scrivere e perché ogni tanto tento di arredare uno studio che verrà, sarei già impazzita.

Ho letto un articolo interessante sugli effetti possibili della pandemia sulla salute mentale delle persone. Interessante perché poneva l’accento sul fatto che nessuno uscirà uguale a prima da tutto questo, nemmeno i sani, perché la condizione di reclusione non è naturale. Non è una questione melodrammatica o un atteggiamento da guerra, è la questione dell’ottimismo: pensare di riuscire a superare questa situazione permette di non impazzire. E ognuno l’ottimismo lo disegna come può.

29 marzo 2020

Caro Osvaldo,

ho ripreso in mano Espiazione di Ian McEwan. Uno strano caso in cui il libro – che amo – mi piace quanto il film. Ogni tanto ne rileggo dei pezzi qua e là.

Avendolo letto un po’ di volte, oramai le sottolineature si sommano l’una sopra l’altra. Ci sono state le sottolineature della prima volta, in cui mi hanno colpito le conclusioni: pensieri conclusivi, azioni definitive, descrizioni fattuali. Ci sono state le sottolineature di mezzo, quelle che riguardano i dettagli che mi ero persa all’inizio. Aggettivi minuziosi, piccole punte a un passo dall’esplosione. E poi ci sono le sottolineature del prima. Dei pensieri e delle azioni che suggeriscono che qualcosa deve ancora accadere.

Quest’ultime sono iniziate quando ho cominciato a preoccuparmi di domani. È iniziata quando è nato Paolo.

Oggi mi sono soffermata su una frase che si trova molto presto nel romanzo, dice così: «Il mistero era sigillato nell’attimo prima del movimento, l’istante che separava la quiete dal moto, quando l’intenzione raggiungeva il suo effetto. Era come il frangersi di un’onda. Se fosse riuscita a tenersi sulla cresta, pensava, non era escluso che avrebbe scoperto il proprio segreto, quella parte di sé responsabile del fenomeno.»

1 aprile 2020

Caro Osvaldo,

oggi ho lavorato sul balcone, coi tram nelle orecchie. Pensavo di essermi stufata di loro, invece adesso so che mi mancheranno. Mi mancherà anche la mansarda di fronte, e il meraviglioso terrazzo di quelli alla nostra sinistra. Ci sono due piedi che spuntano dal balcone più in basso e una ragazza sta con un laptop sulle gambe e gli occhiali da sole addosso qui di fronte sulla destra.

Ho trovato il lievito. La pizza è venuta bene. Oggi alle sei ho avuto due appuntamenti: il solito giornaliero e quello annuale, con la processione della nascita.

Il 1 aprile di quattro anni fa alle 6 di pomeriggio sono entrata in ospedale, perché doveva nascere Paolo, che è uscito il giorno dopo alle dieci e mezza di sera, e solo perché l’hanno tirato fuori. Altrimenti. Aveva – ha – il testone.

Il 1 aprile non è il suo compleanno, ma per me inizia sempre così. Con la metro presa e la valigina dietro. Con Simone che alle otto e mezza torna a casa e non dorme sul divano mentre io non dormo nel letto dell’ospedale, pensando di stare provando il dolore peggiore del mondo, invece non era niente. Il 1 aprile è solo mio, Paolo godrà sempre del giorno dopo – domani prepareremo la torta al cioccolato, faremo un bel pranzo, saremo in ferie, guarderemo fuori al balcone e sistemeremo le piante – ma oggi ci sono io e la mia pancia, le ultime ore insieme. Quelle terrificanti.

5 aprile 2020

Caro Osvaldo,

oggi e l’altro ieri ho letto due cose interessanti.

La prima l’ha scritta Igiaba Sciego, scrittrice e giornalista, su Internazionale facendo il punto su una serie di questioni aperte e di riflessioni attorno al COVID-19. Una riguarda il corpo. Scrive un concetto, fra gli altri, citando anche un’altra autrice, Francesca Melandri: «La parola “corpo” dà forma concreta all’evento che stiamo vivendo, spazza via ogni astrazione. “Una cosa che mi ha colpito nelle prime ore del lockdown in tutta Italia”, sostiene Melandri, “è che ci sono stati due grandi filoni di narrazione. La maggior parte delle persone si è chiesta come fare a pagare le bollette se non si può andare a lavorare. Ma anche: come fare a restare chiusi in quattro in una casa di quaranta metri quadrati? Come restarci con un marito che mi picchia? Sono domande che esplicitano le sofferenze del corpo”»

La seconda, invece, l’ho recuperata dal Financial Times e l’ha scritta Arundhati Roy, scrittrice e attivista indiana, che racconta cosa è accaduto in India da gennaio a marzo, da quando è scoppiato il primo caso a quando si è iniziato a parlare di misure di contenimento e altro, accusando l’assenza di prevenzione – la politica stava pensando ad altro e dice, riferendosi a fine marzo: «[…] Persone che camminavano da giorni sono state fermate e obbligate a tornare nei campi di città che erano state costrette a lasciare. Tra i più anziani, ciò ha portato alla memoria il trasferimento della popolazione nel 1947, quando l’India fu divisa e nacque il Pakistan. […] Ad ogni modo, queste non sono le persone più povere dell’India. Sono persone che hanno lavorato (almeno sino ad ora) in città e hanno una casa in cui tornare. I disoccupati, gli homeless e i disperati sono rimasti dov’erano, tanto in città come in periferia, dove la sofferenza profonda cresceva molto prima di questa tragedia. […]

[…]ai confini fra Delhi e Uttar Pradesh. La scena è stata biblica. O forse no. La Bibbia non poteva pensare a numeri come questi. Il lockdown per supportare il distanziamento sociale ha dato risultati opposti — compressione fisica in scala inimmaginabile. Succede anche all’interno delle città e delle metropoli indiane. Le strade principali dovrebbero essere vuote, ma i poveri sono confinati in piccoli quartieri, in baracche squallide. Chiunque mi ha detto che è preoccupato riguardo al virus, ma il virus è meno reale, meno presente nelle loro vite rispetto alla disoccupazione, alla fame e alla violenza della polizia. […] Mi hanno colpito le parole di uomo, soprattutto. Era un carpentiere di nome Ramjeet, che aveva programmato un cammino fino a Gorakhpur, vicino ai confini con il Nepal. Mi ha detto: «Forse quando Modiji ha deciso questo, nessuno gli ha detto di noi. Forse non sa che esistiamo. «Noi» significa circa 460 milioni di persone.»


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