Caro Osvaldo, seconda parte

Questa è la seconda parte di Caro Osvaldo, un diario con la scusa della quarantena, dal 18 al 25 marzo.

18 marzo 2020

Caro Osvaldo,

non posso dire che odio gli anni bisestili: nel 2000 ho compiuto 18 anni. Nel 2004 mi sono laureata. Nel 2008 ho iniziato il mio primo vero lavoro da precaria dell’editoria (aveva dei lati divertenti). Nel 2012 ho compiuto trent’anni, ho chiesto a Simone di sposarmi. Nel 2016 è nato Paolo.

A sorpresa, però, quest’anno è iniziato talmente male che fare peggio era davvero impossibile. E infatti a febbraio e marzo sono successe due cose memorabili. In senso buono.

Il motivo è che alla fine, la somma delle cose, deve fare sempre «merda»: questa frase non è mia, è di una mia ex compagna di liceo, che sosteneva come non si è mai felici di niente per davvero, perché appena capita una cosa enorme come una pandemia, tu puoi fare due delle cose che ricorderai per sempre, come è successo a me. Oppure ti capita una cosa memorabile e poi scoppia la pandemia.

Sono sei giorni che sono chiuse le librerie. Saranno annullati tutti gli eventi del libro. Nel mio mondo questo significa che tanti piccoli editori stamattina si sono guardati allo specchio e hanno deglutito molto forte. Mi dispiace per loro, e per i redattori, per i collaboratori, per i traduttori, per gli autori esordienti, quelli il cui libro è uscito il giorno prima della chiusura totale. Per il mio di libro, che è rimandato. E per i lavoratori dello spettacolo, per le produzioni ferme. Per chi è stato già licenziato, per quelli che lo saranno domani.

Ho ripreso in mano Sunset park di Paul Auster. Non è il suo-mio libro preferito ma c’è un pezzo che rileggo spesso perché parla di case e parlare filosoficamente delle case è una delle mie cose preferite. Dice così: «Nelle prime settimane fecero del loro meglio per rendere le stanze abitabili, andando diligentemente all’assalto di ogni forma di degrado e decadenza, svolgendo ogni lavoretto come se fosse un significativo sforzo umano, e a poco a poco trasformarono quel porcile sciaguratamente inadeguato in qualcosa che si poteva, con una certa generosità, classificare come una catapecchia.»

19 marzo 2020

Caro Osvaldo,

una confessione: non ho partecipato alle canzoni sul balcone, i flashmob delle 18. Al Lazzaretto si è cantato: Jannacci, Nel blu dipinto di blu, una sola volta l’Inno di Mameli (male) – nemmeno fossimo ai Mondiali del 2006.

Non ho partecipato ma ho tenuto il tempo col piedino sotto al tavolo. La mia scrivania sta accanto alla finestra del soggiorno, la mia preferita della casa, perché affaccia sul balcone e il balcone affaccia su via Lazzaretto. Lo so cosa stai pensando: se conosci un poco Milano sai che qui sotto passano due linee di tram. Le ragazze del balcone trasversale al nostro sono uscite ogni volta e ogni volta hanno cantato per una ventina di minuti, sfidando il rumore di ferraglia assordante dei tram.

Paolo, invece, si è appassionato.

«Mamma, prendi il basso.»
«No, oggi no, tato. Suona col papà. È anche la festa del papà.»

«Mamma, ma tu puoi ballare almeno?»
In che senso almeno?
«No, io vi applaudo.»

Stasera ho steso la pizza del panettiere. Cioè ho comprato la pasta e ho steso quella. Non ce la facevo più. Qui di lievito ancora nemmeno l’ombra e io voglio la pizza.

20 marzo 2020

Caro Osvaldo,

il pomeriggio è diviso in due parti: prima delle 18 e dopo le 18. Seguiamo la conferenza stampa della Protezione Civile & friends da RaiNews 24 e seguiamo il bollettino dei morti, dei malati e dei pochi guariti ogni giorno.

Quando ero piccola io, negli anni Ottanta e agli inizi dei Novanta, il televisore era quello strumento che scandiva gli orari del pomeriggio per me e della sera per gli adulti: il telegiornale delle sette e mezza, quello delle otto e poi i programmi della prima serata. Aveva il potere degli orologi da parete.

Invece adesso è un rito fastidioso: si è insinuato nella nostra vita da un giorno all’altro e presi da un senso di collegialità inutile, quasi come fossimo al Mondiale di calcio, anche noi seguiamo la conferenza stampa delle sei.

Paolo ha fatto finta di niente, per qualche giorno, ma ora è imbarazzato. Non sa cosa fare. Come muoversi. Può parlare? Può cantare? Può sfogliare i libri? Cosa è concesso? Cosa è successo? «Mamma, cos’è ‘sta storia? Ma io a quest’ora non torno da scuola? Non mangio più il mio mezzo panino perché ho una fame da lupi?»

Paolo ha capito che qualcosa non va proprio oggi, davanti al televisore, come quando io ho visto piangere tutta quella gente davanti a dei mattoni a novembre del 1989.

Quando abbiamo acceso ancora una volta il televisore alle sei, ha colto il grido di battaglia:

«Ele, sono le 6.»
Oppure:
«Accendi che sono le 6.»

Si è messo sull’attenti, ha visto come abbiamo reagito. Le parole gli dicono di fermarsi, di ritirarsi, di correre sul divano. Di mettersi in mezzo e guardare un po’ di là, un po’ di qua. Metti che mamma e papà diventano degli alieni. Metti che a furia di guardare intensamente poi succede qualcosa e io mi perdo il momento in cui succeede.

Sempre la stessa processione. Dura da pochi giorni, ma qui qualunque cosa fatta uguale al giorno prima sembra che duri da decenni. Paolo ascolta e muore di noia. Si sacrifica, piagnucola, e muore di noia. Sta seduto perché di là da solo no e mentre loro parlano e noi muti stringiamo i denti elenca tutte le cose da fare dopo la conferenza, perché la conferenza è diventato il virus che si immischia nelle nostre faccende e quindi val la pena sempre pensare al dopo.

«È noioso, mamma.»
«Sshhh.»

«Quando finisce, mamma?»
«Sssh.»

«Papà, mi leggi Elmer
«Dopo, dopo.»

Le abbiamo soprannominate «le notizie del virus» e abbiamo deciso che ci sarà un momento, a un certo punto, in cui nessuno accenderà più la televisione proprio alle sei.

22 marzo 2020

Caro Osvaldo,

oggi ho parlato con quattro amici a distanza. Due con bambino, una con marito convivente, uno single. Lambrate, Londra, Piazza Firenze.

La cosa che ci preoccupa di più è che arrivi l’epidemia al Sud Italia. Fin quando dobbiamo rimetterci nelle mani della Lombardia quasi al collasso mi sembra sempre una cosa più sostenibile che avere problemi al Sud.

Tutti abbiamo detto sì con la testa al primo di noi che ha pronunciato le parole: «Speriamo che non arrivi al Sud.» Le autorità sono d’accordo con noi ma loro ne fanno una questione di numeri, di evidenza, di scienza, io ne faccio una questione di premonizione. Vedo già tutto quello che andrebbe evitato e non si potrà evitare, una sorta di catastrofe di qualunque cosa: servizi essenziali, comportamenti, morti.

Famiglia.

Francesca abita a Londra ma parte della sua famiglia abita a Lodi: sapeva bene cosa aspettarsi fin dal principio di questa cosa. Le arrivavano notizie, paure, preoccupazioni, reclusioni pesanti ancor prima che chiudessero Milano.

Tutti ci siamo rimessi a fare le faccende di casa, a portare più spesso fuori la spazzatura, per avere la scusa di girare nel cortile.

Io conosco meglio i miei vicini. Ho scoperto che il signore del secondo piano che non saluta mai, non saluta nemmeno adesso. Ci incontriamo a buttare la spazzatura, quando lo facciamo di mattina presto: bambini e anziani iniziano la giornata alla stessa ora.

I ragazzi del settimo piano hanno messo un cartello nell’atrio: aiutano chiunque abbia bisogno per fare la spesa, andare in posta o in farmacia. Se dovessi risultare positiva al COVID per qualunque ragione, li chiamo. Ho preso il numero.

I tizi del sesto piano invece fanno ginnastica in casa a mezzogiorno ogni giorno. Siamo tutti Barbara Buchet.

Abbiamo dato un nome ai fiori invasati del ristorante accanto chiuso e in ristrutturazione ferma. Hanno lasciato tutto così com’era, come fosse arrivato il terremoto, eccetto che le loro cose non si sono frantumate. Stanno nel cortile, imballate, pronte a servire, a cucinare, a chiedere la comanda, a distribuire, incellophanate una stretta all’altra come solo le cose inermi possono fare in questo momento.

Io dò i nomi a qualunque cosa, Paolo è peggio di me. Abbiamo deciso che il fiore rosso – pare una campanula – si chiama Pino. La margherita nel vaso accanto Daniele. Paolo non ha capito il gioco, io sono tre giorni che canto Quando.

25 marzo 2020

Caro Osvaldo,

scusami, ma non riesco a scrivere tutti i giorni. E il motivo è banale: tutti i giorni sono identici. E mi sembra di aggiungere niente al vuoto. Il mio diario della quarantena che sa di niente esattamente come quello di tutti i miei vicini di casa.

Ho recuperato un articolo sul Corriere scritto da Antonio Scurati: dice che la sua generazione non ha avuto la guerra, non ha avuto il terrorismo, non ha avuto niente di niente e si è meritato il COVID. Meritato non lo ha detto, lo dico io.

Io faccio sempre le stesse cose: sveglia, doccia, scrivere il libro, colazione, vestirsi, Paolo, un po’ di lavoro, Paolo, molto lavoro, Paolo, pranzo, lavoro, Paolo, lavoro, Paolo, ginnastica davanti al televisore coi video di YouTube – per arrivare al livello Barbara Bouchet mi manca solo il fuseaux – con Paolo che assiste e a volte partecipa – poco lavoro, conferenza delle sei, lavoro, cena Paolo. Dall’altra parte Simone fa lo stesso, in modo complementare, come se fossimo istanti diversi della vita della medesima persona. Ogni tanto mi sembra di salutarlo mentre passa col treno.

Ci sono persone che non si vedono da settimane, famiglie che sono distanti, persone sole che sono lasciate sole da chi si occupava di loro. Detenuti che hanno paura, anziani che hanno paura. Senzatetto per cui non è cambiato niente, tranne il non poter sostare più davanti al supermercato con un cappello in mano.

Mentre Simone passava col treno di casa oggi, ci siamo presi per mano. È durato tre secondi, forse addirittura due. Ci siamo detti meno male che non siamo da soli. Pensa che angoscia se fossimo da soli. Pensa che ansia non sapere come stai.


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