Ep. 3 | Arrivederci decennio, ciao

Di seguito il testo completo di Arrivederci decennio, ciao, il terzo episodio di Volée – Un podcast sul tennis, uscito a febbraio 2020.


L’esercizio più diffuso dell’inizio anno è stato cercare i fatti più rappresentativi del decennio appena trascorso, anche se il decennio, numeri alla mano, non è ancora esattamene finito. Quando ho deciso di fare questo esercizio anche io mi sono trovata nella difficoltà – o possibilità – di raccontare le partite più memorabili o le sconfitte più tragiche, le vittorie più entusiasmanti o quelle che hanno segnato una svolta.

Arrivederci decennio, ciao racconta di una tennista formidabile, di una promessa non mantenuta, della nascita di una stella e del 2015 un anno, fra gli altri, da incorniciare.


Francesca Schiavone

Il 5 giugno 2010 Francesca Schiavone vince il Roland Garros 6-4, 7-6 contro Samantha Stosur.

Francesca arriva a Parigi piuttosto in forma: all’Australian Open a gennaio vince tra le altre contro Aga Radwanska e Venus Williams, raggiungendo gli ottavi di finale, vince il suo terzo titolo WTA a Barcellona e si presenta a Parigi come numero 17 del classifica mondiale.

La terra è fatta per abbassare la rapidità del gioco, per costringere i giocatori con i servizi più potenti a rallentare la palla, ma la partita contro Caroline Wozniacki NUMERO XX DEL MONDO va contro tendenza. Francesca Schiavone vince 6-2, 6-3 senza troppi pensieri e con un gioco impossibile: imposta attacchi veloci, colpisce a rete, lascia l’avversaria immobile sul controtempo. Non sembra nemmeno di essere sulla terra rossa. E il ranking, l’inerzia della partita si invertono praticamente subito.

Probabilmente è con Caro che Francesca vince la corsa più importante, quella che le manca per giocare perfettamente la semifinale e poi la finale: la convinzione di poter vincere contro chiunque, anche contro  le favorite, e di avere chiunque di noi, in Italia come a Parigi, dalla sua parte. Fino ai quarti Francesca guadagna ogni match e ogni punto, portando a casa vittorie in rimonta e vittorie sul velluto. Sperimenta il gioco da ogni angolo possibile e gustando passo dopo passo la determinazione che le occorre.

In semifinale, Francesca incontra Elena Dementieva e recupera fortunosamente un turno, perché Dementieva si ritira dopo il primo set: il 2010 è il suo ultimo anno, prima del ritiro, e gli infortuni che la perseguitano si fanno sentire.

Nell’altra semifinale, invece, Samantha Stosur vince contro Jelena Jankovic e prenota il suo posto nella prima finale di Slam della sua carriera. E questa è l’unica cosa che Francesca e Samantha hanno in comune.

A essere favorita è Samantha, nonostante tutto, e ciò che i pronostici ammettono è che Francesca ha disputato due settimane memorabili, è la finalista migliore che si possa sperare ma Samantha ha una marcia in più ed è soprattutto molto adatta alla sacra terra rossa.

La partita di Francesca in finale inizia proprio quando comincia a rispondere a servizi millimetrici, quando tenta la precisione, quando prende qualche rischio per togliere qualche certezza all’avversaria e, di contro, guadagnarne lei. Francesca comincia a mettere in pratica la tattica giusta: scende a patti con la terra e allarga di precisione i suoi colpi quando partono dal fondo e cerca di attaccare a rete il più possibile quando ne ha l’occasione.

Gioca sfruttando la terra e plasmandola, quindi Sam si ritrova a sbagliare troppo, a mal calibrare i colpi e di nuovo per Francesca funziona tutto: la tattica, il gioco, le variazioni, la brillantezza delle scelte, la terra stessa la asseconda e la soccorre e quando ne ha maggiore bisogno, nel tie-break del secondo set, la terra muta, la alleggerisce e le permette di colpire la palla in modo sempre migliore, punto dopo punto, in una progressione vincente. Alla fine, Francesca può fare ciò che ha promesso: mangiarsela quella terra.

Heather Watson

Venerdì 3 luglio 2015, a Wimbledon, il sole alto sull’erba del Campo centrale accoglie al terzo turno Davide e Golia.

Davide si chiama Heather Watson e prima di questo giorno l’ultima volta che calca il centrale per contendersi un passaggio di turno perde malamente contro Agnieszka Radwanska, sbagliando praticamente ogni aspetto della partita: l’approccio – se ti convinci di non poter vincere non succederà mai – la strategia – attaccare continuamente senza risparmiarsi non è sempre una buona mossa – e il temperamento – il nervosismo non le permette di portare a casa nemmeno un ricordo positivo.

Di quella partita, però, Heather racconta di aver ingoiato tutto, ogni singolo errore, e di aver digerito, per differenza, quello che le sarebbe servito per vincere una top player, a un certo punto. La sconfitta contro Radwanska le serve da lezione: una giocatrice di livello non può essere battuta solo col talento, grandi movimenti e colpi precisi.

Fino al 3 luglio 2015, la nostra Davide partecipa a Wimbledon ogni anno dal 2010, è praticamente di casa, è anche britannica certo, e ci va da quando di anni ne ha 18, ma non va mai oltre il terzo turno.

Da bambina, nessuno chiede a Heather di giocare a tennis. A nove anni usa 10 pound per iscriversi di nascosto a un torneo di softball tennis a una fiera locale e torna a casa qualche giorno dopo con un trofeo.

Suo padre è dilaniato dalla tristezza quando parte per la Florida per entrare nella Nick Bollettieri Academy. Heather ha talento, lo dicono tutti, ha un futuro radioso, ma sua padre piange.

Lo stesso Nick Bollettieri dice di lei che ha un gioco atletico, di gambe, grande testa e tanto margine di miglioramento. Potenzialmente una campionessa. Andy Murray la vede giocare molto presto e ne apprezza la qualità e capacità di interpretare il gioco.

È giovane, ma si farà certamente. Cresce in Inghilterra, ne diventa la ragazza prodigio, vince uno US Open da juniores e diciamolo: Wimbledon deve diventare casa sua.

Wimbledon

Nel 2015 l’occasione del riscatto arriva quando il tabellone annuncia il Golia perfetto per questa Davide: Serena Williams.

Heather è la principessina di casa, Serena è la regina ovunque. La folla e la partita non sentono il terzo turno; sembra ci sia una tensione almeno da semifinale. A Wimbledon si parteggia sempre per i campioni di casa o per Serena Williams e Roger Federer e Heather Watson è la numero uno in Inghilterra, ma Serena è la numero uno al mondo.

Una contro l’altra giocano il potenziale dell’esplosione e l’esplosione stessa, il prima e il dopo, il riscatto e l’affermazione continua, il piccolo e il grande, il possibile e il certo.

Serena e Heather si giocano il passaggio del turno e il primo set vola identico a quello di 3 anni prima contro Radwanska: tra facce già semi deluse tra il pubblico e qualche sbadiglio, Serena vince il primo set 6-2 in venticinque minuti, a passeggio, senza avere particolari scossoni, cinicamente.

Heather dal canto suo non riesce a destare dubbi: il secondo finirà 6-0, tutti a casa, Wimbledon perderà la possibilità di vedere il talento di Heather vincere, ancora una volta, e Serena non sentirà nemmeno il bisogno di sentirsi in imbarazzo.

Ma uno dei principi più difficili da mettere effettivamente in pratica per un atleta impegnato in un incontro è non far sì che sia finita finché non è finita. Che ci vorrà mai: azzerare la tua ultima mezz’ora di vita, ignorarla, farla piccola e cacciarla via come una biglia. Reagire.

Ecco: reagire è una delle parole più usate nella narrazione sportiva. Dov’è il confine fra la reazione di qualcuno in svantaggio e la distrazione di quell’altro in vantaggio?

Il tizio che sbadigliava, al primo punto conquistato da Heather all’inizio del secondo set, grida dagli spalti: “Puoi farcela contro di lei, Heather”, forte di un ingiustificato ottimismo, Serena fa finta di non sentire, applaude sportivamente l’invenzione della sua avversaria.

Chi si sveglia in quel momento tra gli spalti racconta di una bolla magica che si allarga pian pianino da Heather e inghiotte Serena avvinghiandola dalle gambe fino alle spalle: si appesantisce sulle gambe, scatta meno, la velocità un po’ si perde, la lucidità si offusca; Heather non aggancia la preda in difficoltà, ma nemmeno si lascia sfuggire del tutto l’occasione e dopo qualche game in cui la gara è a chi perde meglio, Heather finisce sul 2 pari, rubando la prima volta la battuta a Serena, poi 3 pari e infine 4 pari. Serena si spende molto, tira fuori l’armamentario completo: drop shot, smash, ruggiti, lungolinea. Non era previsto: perché Heather resta in piedi?

La folla è in piedi quando Heather non sbaglia, ma Serena manda larghi e fuori scala ben due rovesci di seguito. Il campo di Serena si è ristretto, è diventato claustrofobico, mentre quello di Heather arriva sino alla fine degli spalti. Heather è in vantaggio per la prima volta nella partita e si porta sul 5-4 e va a servire per il secondo set.

Ciò che Heather fa a quel punto è tornare con la mente a una vittoria facile, felice, su un campo sicuro. Senza chiudere gli occhi, battuta dopo battuta, e salvataggio dopo salvataggio vede l’imprecisione di Serena, imprevedibile a chiunque tranne che al tizio che l’aveva incoraggiata un set prima.

Il posto felice di Heather è il torneo vinto alla fiera di paese a nove anni, con 10 pound di iscrizione, quando era sola e nascosta, non voleva nessuno perché non sapeva di essere qualcuno e la sensazione dell’inizio, delle cose che ancora possono capitare, è la miccia che l’accende.

Heather vince il secondo set.

La reazione di Serena

Il copione prevede la reazione di Serena che è una sorta di menu fisso: si riappropria della battuta, mettendo in chiaro la situazione – nessuno ha detto che è finita finché non è finita, ricordi? – blocca qualche velleità, ma non abbastanza e cerca di ripartire dai fondamentali per rimettersi in carreggiata: piedi saldi in campo, si dedica al gioco con tanta concretezza e pulizia dei colpi. Mette ordine ma non fino in fondo, perché non basta. Heather vince anche i primi tre game del terzo set. Serena è infastidita, Heather è divertita. Non rinuncia a un drop shot, non fa a meno di sorridere; ruba di nuovo un turno di battuta a Serena e non spreca i suoi.

Serena si accorge però che Heather smette di divertirsi e le fa recapitare il 3 pari nel terzo set in un quarto d’ora. Le distrazioni di Serena diminuiscono, Heather abbandona il posto felice e torna sul Campo Centrale di Wimbledon, il più importante di tutti, uno dei più ambiti del mondo e razionalizza infaustamente il contesto, l’avversaria, i precedenti. Arriva il 4 a 3 per Serena e poi il 4 pari per Heather che non sa come andrà a finire, ma chiede alla folla – la sua per davvero – di farsi sentire.

Da quel momento, fino al termine della gara, è un alternarsi di gioia e dolore, Davide e Golia si confondono: nessuno riesce più a capire chi sia l’uno e chi sia l’altro e il pubblico vuole nel profondo che Serena sia battuta dalla principessa del Regno, non importa più la storia, lo sport, il pedigree. Importa che Davide batta Golia. Che Heather porti a casa i punti quando va a servire per il match.

E invece è Serena che vince 7-5 con una seconda battuta e una risposta che sembra fuori e invece è guarda un po’ sulla linea.

Garbine Muguruza

La prima volta in cui crediamo che Garbine Muguruza prenderà il posto di Serena Williams è quando non ha vinto contro di lei a Wimbledon nel 2015.

Fino a quel giorno Garbine si era distinta in particolare in un’occasione: l’anno prima, nel 2014, ancora ventenne batte al secondo turno del Roland Garros proprio Serena. Fino a quel punto della stagione Muguruza aveva vinto il suo primo titolo WTA a Hobart contro Klara Koukalova 6-4, 6-0 partendo dalle qualificazioni e nessuno avrebbe scommesso su una sua vittoria contro la numero uno del mondo e per di più in uno Slam. E invece durante entrambi i set, inaspettatamente a Serena non riesce bene nulla: il servizio è a volte impreciso, altre poco potente, le risposte troppo prevedibili e centrali, la strategia di gioco confusa. Garbiñe, quindi, approccia l’incontro a modo suo, da fondo campo, sorprendendo l’avversaria con determinazione e tecnica, sfruttando le linee, e con l’aggressività necessaria.

Nata per le superfici di terra, Garbine a Wimbledon arriva in finale nel 2015 sorprendendo tutti: vince contro giocatrici titolate  e mentre Serena sta per essere messa in crisi dal suo piccolo Davide a Garbine riesce quasi tutto con facilità. Alla vigilia della finale quasi ci lasciamo prendere dall’idea che a Garbine possa succedere, che l’unico modo per far vacillare la supremazia di Serena sia vedere vincere una predestinata. La terra non è l’erba, è vero, ma Serena inizia a faticare, di tanto in tanto, inizia ad appannarsi, per qualche momento. Il successo di Garbine a Wimbledon è durato i primi sei game, quando si trova a inizio partita sul 4 a 2 e la scivolata per Serena è a un passo.

Garbine sogna e ne ha ogni merito: non si lascia intimorire, si fa vedere, è veloce, compete con la numero 1 e non  come le altre volte, non è nemmeno come l’anno precedente: l’erba non è la terra, l’erba può tradire il suo re e anche l’ultimo arrivato, l’erba esiste solo per sé e per se stessa brilla e questo è Wimbledon, non c’è niente da ridere.

Dopo il 4 a 2 Serena torna e non ce n’è più.

Garbine a Wimbledon nel 2015 perde 6-4, 6-4 tra le lacrime finali, le lacrime di chi aveva creduto di poter vincere, di avere un’occasione e questo è l’atteggiamento migliore per riuscirci davvero, contro chiunque. Non si tira mai indietro, finché può rimane in partita, a volte infila anche i colpi perfetti, però la personalità da campionessa è ancora in nuce: ha già indossato il vestito buono ma non è capace di starci dentro.

Garbine vincerà il Roland Garros nel 2016 e Wimbledon nel 2017, e  per pochi game in quella giornata di luglio del 2015 ho visto nascere una stella.

Il 2015

Italia amore mio

Nel 2015 a New York il tifo italiano torna protagonista e prepotente quando, durante lo US Open, accadono ben due cose insperabili: in semifinale le italiane sono due – Roberta Vinci e Flavia Pennetta – ed entrambe vincono contro due teste di serie – Serena Williams e Simona Halep.

Delle due la partita di semifinale che rimarrà nella storia sarà quella di Roberta Vinci e il motivo è semplice: batte Serena Williams a casa sua, con il tifo contro e conquistandosi non solo la finale ma anche il pubblico e di sicuro una delle vittorie più imprevedibili non solo del decennio ma della storia dello US Open femminile.

Fino a questa partita, infatti, Roberta Vinci non è mai arrivata oltre il quarto turno di uno Slam in singolare, è 42esima nella classifica mondiale e la specialità di Roberta è stata sempre il doppio, dove, invece vanta 5 vittorie Slam e 4 in Federation Cup.

È giovedì quando Roberta telefona per prenotare un volo di ritorno per Roma, qualche ora dopo la sua sconfitta contro Serena Williams. Valuta un paio, tutto compreso. Avrebbe probabilmente perso in due set veloci, senza troppo penare. Se fosse andate bene, avrebbe rubato magari un turno di battuta, a sorpresa, avrebbe infilato qualche buona volée e qualche slice eccellente e sarebbe andata a casa comunque felice.

Prepara la valigia, ma non tutta. Accantona i vestiti da una parte, l’equipaggiamento tecnico dall’altra, si lascia lo spazio per le ultime cose. Guarda il suo letto, è tutto pronto, e va a Flushing Meadows.

Fa i conti Roberta e poco altro le serve. Non crede molto alla vittoria, perché sulla sua strada non c’è solo la numero 1, non c’è solo Serena Williams. C’è Serena Williams a casa sua in un momento particolare della stagione, in cui ha bisogno di una vittoria netta, in cui Serena sente che qualche filo di certezza sta scappando e ha bisogno di riagguantarlo. Serena arriva dalle vittorie in tutti e tre gli Slam dell’anno, non senza rischi, e da un torneo americano in qualche punto appannato, ma che le permetterebbe di completare il Grande Slam. Roberta, invece, arriva semplicemente dalla convinzione di perdere.

Roberta racconterà che le trema la mano sulla racchetta durante la partita, che i colpi, durante il primo set, non li sente affatto, e che il suo corpo risponde a una dittatura che non è la sua. Così, il primo set finisce male per Roberta che perde 6-2, ed è tutto secondo copione: Serena ha il solito istinto killer, Roberta fa vedere le sue qualità, ma non riesce ad averla vinta.

E nel secondo set Serena sbaglia ciò che di solito fa ad occhi chiusi e questo le costa la fatica mentale di non comprendere dove stia andando la partita, mentre Roberta scopre punti deboli che non pensava di vedere e non si fa attendere. Ne approfitta, cambia tattica, attacca e cerca il favore del pubblico che non esiste. Nessuno vuole che lei vinca, ma se lei ha già stracciato il biglietto di ritorno dopo il secondo set, il pubblico impiega un bel po’ prima di aprirsi.

La chiave di volta di questa splendente vittoria la regala Serena in conferenza stampa, quando dice che Roberta Vinci «ha giocato il miglior tennis della sua carriera, ha 33 anni, ha trovato il risultato tardi, è un bene per lei…anzi: è di ispirazione. Credo che abbia giocato letteralmente fuori da sé».

Williams non ha torto perché Roberta deve uscire da sé stessa per vincere la partita, vestirsi da vincitrice e giocare, lasciar stare i pensieri e giocare. Credere in una solo set di una singola partita, non importa quanto importante essa sia, e giocare. E lo fa bene, con dedizione e passione.

L’altra semifinale

Flavia Pennetta fa di Simona Halep una pallina accartocciata: vince 6-1 6-3 in meno di un’ora e praticamente non sbaglia niente. Anche questa è per lei la partita della vita, in una maniera molto meno plateale di Roberta Vinci. Entrambe si giocano l’accesso alla finale, certo, ma in due modi opposti: Flavia vince con convinzione e forza, senza scusarsi di essere lì, né assumere che non fosse alla sua portata e semplicemente gioca meglio contro Simona Halep, che ancora una volta butta via una partita importante.

La finale di quello US Open del 2015 è una festa. Per noi, certo e a fine partita le due siedono vicine, sulla sedia, a chiacchierare. Del torneo, forse, delle due semifinali che a questo punto hanno il sapore di una finale per uno.

Non è stata una delle migliori partite che si potesse sperare, ma quella che comunque è entrata nella storia dello sport: la prima e unica (fino ad ora) finale italiana di un torneo WTA e di uno Slam, la seconda vittoria di uno Slam da parte di una tennista italiana.

Flavia Pennetta vince 7-6, 6-2 e contestualmente annuncia il ritiro: “Prima di iniziare il torneo, un mese fa, ho preso un’importante decisione nella mia vita. Questo è il modo in cui voglio dire addio al tennis.”

Quando si chiede a un tennista avanti con l’età del suo ritiro, di solito il tennista di turno – e forse lo sportivo di turno a ben vedere – risponde che quando arriverà il momento sarà il momento in cui non amerà più fare quello che fa: gli allenamenti, le scelte, i sacrifici, dormire negli hotel, andare in giro per il mondo e stare lontano da casa. Nessuno parla di vittorie. Nessuno dice: Quando non vinco più, allora quello è il momento in cui vorrò ritirarmi. Nel tennis difficilmente vincere è l’ago della medaglia; pochi sono i giocatori che vincono tutto e spesso e pochissimi sono quelli che lo fanno per anni o decenni.

Flavia Pennetta ha sentito il vento cambiare, per una volta, e l’ha seguito, per una volta soltanto. E le è bastato.

WTA Finals

Il torneo WTA FInals è considerato una sorta di Slam non ufficiale, il quinto torneo più importante dell’anno, l’ultimo, a cui accedono solo otto giocatrici che vengono divise in due gironi da cui si accede alle semifinali e alla finale.

L’edizione del 2015 è molto particolare, è il torneo delle affermazioni: le nuove, le vecchie, le seconde e quelle finali. E soprattutto: la numero 1 al mondo, Serena Williams, non partecipa.

C’è Simona Halep che deve tornare ai vertici e affondare la spada, finalmente. C’è Flavia Pennetta, che arriva dalla superba vittoria dello US Open e corona una carriera. Ci sono Garbine Muguruza e Luci Safarova come debuttanti, ci sono Petra Kvitova, Maria Sharapova e Angelique Kerber che vogliono ricominciare. Infine, c’è la forma fisica fenomenale di Agnieszka Radwańska.

Il torneo si accede nelle semifinali: Maria Sharapova contro Petra Kvitova e Garbine Muguruza contro Agnieszka Radwańska.

I pronostici sono a favore di Maria e Garbine, che giocano magicamente durante le partite del girone e in generale si trovano in un momento della carriera in cui, per motivi diversi, stanno preparando il terreno per qualcosa di eccezionale che ha da venire.

Maria Sharapova, infatti, sta costruendo il suo ritorno: il 2015 è stato l’anno in cui l’abbiamo vista raggiungere diverse semifinali e finali, tra cui Wimbledon e gli Australian Open  – ma verrà fermata dalla sospensione per doping di lì a poche settimane.

Garbine, invece, ha ventidue anni, si è fatta notare in modo eccellente al Roland Garros nel 2014 e a Wimbledon 2015 quando è stata finalista, e ha dimostrato capacità e talento.

Ma il tennis è meschino e la finale del torneo la giocano Petra Kvitova dalla Repubblica ceca e Agnieszka Radwańska dalla Polonia, attrici di una delle finali meno previste della storia del torneo. Entrambe, infatti, perdono due delle tre partite del girone quando approdano alla semifinale contro Garbine Muguruza e Maria Sharapova.

Al pronostico, Petra contro Maria ha poche possibilità, ma nel primo set Petra contro Maria diventa subito una storia a sorpresa, in cui Petra vince, poi frana, ci ripensa, subisce il gigante siberiano, ma poi si riprende e alla fine è lei che va in finale e Maria non sa nemmeno spiegarsi fino in fondo il perché.

Dall’altra parte, Garbine contro Aga è un racconto quasi noioso. Nessuno sembra poter battere Garbine a Singapore, nessuno sembra poter competere con la sua corsa annunciata. E invece Aga, passo dopo passo, le mina tutte le certezze e gioca la partita della vita. Raccoglie tutti gli dei del tennis, vende loro l’anima e mostra colpi che incantano. Vince in tre set.

Petra e Aga sono le due che devono dimostrare di poter tornare in alto, dove sono state altre volte prima del 2015; sono state due delle principali candidate alla conquista del tennis femminile, all’inizio degli anni Dieci del Duemila, quando si dava a Serena Williams poca vita ancora. Petra aveva marchiato a fuoco con il suo nome il 2011: potente, talentuosa, adatta al gioco su diverse superfici, due volte campionessa a Wimbledon appunto nel 2011 e poi nel 2014 e nelle WTA Finals nel 2011, Petra non vede l’ora.

Aga nel 2010 è nella top 10 WTA, nel 2012 è seconda e finalista di Wimbledon, nel 2014 è semifinalista a Melbourne e il 2015 deve essere l’anno in cui vince uno Slam, e infatti nel suo staff di allenatori arriva Martina Navratilova.

In finale,Aga richiama gli stessi dei usati per vincere in semifinale, ma stavolta non c’è sorpresa, perché tutti erano pronti a vederla scintillare e a misurarsi con una delle giocatrici più concrete, potenti ed eleganti del circuito. Vincono un set a testa, ognuna sovrastando l’altra con quello che sanno fare meglio: difendere l’una e attaccare l’altra, con forza fisica l’una e velocità l’altra.

E così in una delle finali più impreviste della storia del torneo, nel terzo set Aga ruba a Petra i poteri e li somma ai suoi: a vincere a rete ci va lei, a vincere di misura a rete ci riesce lei e la difesa a fondo campo diventa quasi sempre un punto che si concretizza. Aga spegne Petra e si porta a casa la vittoria che aspetta da una vita, come fosse l’unica a contare davvero, come fosse uno Slam per davvero.

Uno Slam Aga non lo vincerà mai, si ritirerà nel 2018, e quella è davvero la sua partita più importante, di sicuro quella che non dimenticherà mai.


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