Prima persona plurale

La prima cosa che succede in gravidanza è che si assume quel fastidioso modo di dire che impone una comunione di intenti fra il genitore e le imprese del figlio. E se negli anni della giovinezza è tutto un «Stiamo studiando per la maturità.» o «Abbiamo finito gli esami.» in gravidanza è «Stiamo cefalici.» oppure «Stiamo ancora podalici.» o ancora «Ci muoviamo poco.» e così via.
La prima cosa che succede, in sostanza, è che ci si prepara a un noi inconsistente, perché imprevedibile, a un contenitore sintattico e verbale che pretende di capire ancor prima di essere sopraffatti dagli eventi e fa finta di fornire strumenti adeguati per una cosa di cui non si sarà mai sicuri abbastanza.

L’insicurezza, questa sensazione di colpo palpabile, finisce per essere la molla di tutto e finisce per forgiare il carattere del genitore, anche quello del genitore più razionale del mondo. L’insicurezza arriva e si accomoda senza troppe cerimonie: ci si accorge che la sedia era pronta da tempo e si aveva iniziato già ad apparecchiare col servizio buono.

La sera che Paolo arriva è il 2 aprile, sono le 22.30, minuto più minuto meno — diciamo che il momento in cui l’ostetrica in sala operatoria decide che mio figlio nasce sono le 22.30 — e io sto guardando l’orologio di fronte a me, in alto, mentre sto stesa sul tavolo operatorio con le apposite cannule per l’anestesia locale, perché lo decideranno pure loro l’orario, ma io voglio esserne sicura. Paolo impiega poco per dire distintamente quattro uè, ma a me sembrano, a occhio, almeno due minuti. Rido. Non ridevo da almeno quaranta ore di fila, avevo sorriso per un momento solo quando, durante l’ultima fase acuta di contrazioni, Simone mi ha detto che a minuti sarebbe iniziata la partita.

Rido adesso, quando lo sento, perché è la reazione che ho quando una cosa finisce. Nella mia vita, a volte si è trattato di un riso piccolo, altre amaro o di sollievo, altre ancora di contentezza. Ho riso moltissimo la mattina del mio matrimonio, per esempio, come ho riso altrettanto un pomeriggio sul lungo Senna che ricorderò a vita, o un altro su una bicicletta rossa in giro per Bologna quando non avevo altro da fare per due ore abbondanti se non guardare la luce che spaccava asimmetricamente le arterie più famose della città. Ho riso quando ho finito di editare le mie prime bozze. Prima di ridere con Paolo, avevo riso guardando fuori dal balcone di casa qui a Milano. In basso, sul marciapiede, c’era una ragazzina con le trecce scure tenuta per mano da suo padre, un uomo lungo e spigoloso, che fisicamente niente aveva a che fare con lei. Lui camminava deciso e regolare, lei sbilenca e stanca. Aveva uno zainetto dietro le spalle, lui un borsone scuro nell’altra mano. Quell’asimmetria diceva che quel padre aveva fretta e quella figlia no, che lui doveva portare lei da qualche parte ma a lei non importava nulla. E mi è venuto da pensare se io, invece, sarei stata capace di far camminare Paolo dritto. Mi sono guardata, ho riso.

Rido, poi scarico l’adrenalina. Continuo a guardare l’orologio: lo vedo, imbacuccato e gonfio, alle 22.37; poi lo portano a Simone e rimango sola, con medici, infermieri e anestesisti, uccisi dal caldo della sala operatoria.
«Chiamate qualcuno, per piacere», urla uno di loro, «Ditegli che moriamo di caldo.»
Io ovviamente ho freddo e in quel momento scarico tutta l’adrenalina delle ultime ventisei ore. Penso: «Stiamo bene», anche se già non siamo più una cosa sola, ma due, io una cosa nuova, Paolo un’altra, diversa eppure ancora così vicina.
Passano tre mesi e qualche giorno. L’insicurezza rimane, latente e cronica. Essere genitore è una condizione che non conosco, fare il genitore è il compimento della prima persona plurale della grammatica, di colpo una persona così insicura e così imprevedibile.
Stiamo bene, sì, anche se Paolo gnaola e il motivo preciso non lo saprà mai nessuno.